Alla periferia del cerchio di Joan Josep Barceló i Bauçà

La periferia per il cerchio è, in fondo, il riconoscimento della sua essenza più vera. È lì, infatti, che troviamo applicato un principio di uguaglianza, perché ogni punto, al suo interno, mantiene, rispetto a tutti gli altri, la stessa distanza dal centro. Ma è anche lì, però, che la distanza da quello stesso centro è massima.
L’esempio più fulgido dell’astrazione democratica si ribalta, quindi, appena cominciamo a guardare le cose da un variato punto di vista, nel suo esatto contrario, dal momento che, agli estremi del cerchio, si concentrano gli ultimi, i confinanti, coloro che, pur definendo il senso stesso della figura geometrica, quasi non ne fanno più parte, perché oltre loro c’è solo un altro che ci somiglia troppo per poter marcare una reale differenza.
A queste riflessioni preliminari sul titolo di questa breve silloge di va, poi, aggiunta un’ulteriore e ancor più pregnante considerazione: se è vero che tutto ciò che è periferia trova il suo senso nel centro da cui è massimamente distante, è anche vero che non potrebbe esistere centro, se non ci fosse una periferia a cintarne il significato. Esattamente come nel rapporto tra Dio e Uomo in cui l’uno non può essere senza che sia anche l’altro.
E sorge allora l’ulteriore domanda (che ci viene dritta dritta da Nietzsche): è, dunque, l’uomo un errore di Dio? O , forse, Dio è soltanto un errore dell’uomo?
Domanda prospettica, quella da cui prende le mosse Alla periferia del cerchio, che si moltiplica in una fuga tra specchi quando ci si accorge che la perfezione della figura geometrica deve a scendere a patti con l’amara verità cartesiana per cui i numeri perfetti, proprio come gli uomini perfetti, sono rari.
In questo spazio astratto, geometrico ed esperienziale, prendono, così, corpo trentaquattro oggetti con orientamento variabile, trentaquattro liriche che sfondano il limite del visibile per cogliere, nel cuore pulsante di una parola tagliente e perfetta come il diamante, il senso stesso del nostro essere al mondo.

 

l’alba es romp ne la mirada des ulls de l’invisible,
transforma el seu caràcter i se subjuga al cor

l’alba si spezza nello sguardo degli occhi dell’invisibile
trasforma il suo carattere e si soggioga al cuore

Cita la poesia di apertura della raccolta avviando un’autentica dichiarazione di intenti. La luce si accende nell’epifania dell’invisibile, si ribalta nello sguardo del suo contrario. Immagine allo specchio perfettamente calibrata al di fuori del tempo lineare della nostra fallace percezione e, perfettamente coerente al cerchio in cui non c’è inizio e non c’è fine, perché ogni punto è esso stesso inizio e fine, senza che ci sia bisogno per forza di un viaggio nel mezzo.

tot final és un inici.

ogni fine è un’inizio

Eppure, ci dice il poeta, malgrado i cicli stagionali o l’intervallarsi di giorno e notte, congiurino a ripeterci che il Tempo è ripiegato e nietzschianamente ritorna in eterno, noi continuiamo a rifiutare di discioglierci nell’epifania del cerchio e a volerci linee spezzate che rompono lo spazio, disegnando orizzonti statici. Aneliamo, con questo, a un’esistenza separata, solipsistica, che ci rende particelle ostili agli altri, incapaci di empatia e compassione e protesi inevitabilmente alla guerra

Qui sòi imprevisibles els died de guerra.

Che i giorni della guerra sono imprevedibili.

come afferma il poeta appena un po’ più avanti nella stessa lirica, con una scelta lessicale forte che lega l’invisible all’imprevisibles: la visione è necessaria per accedere al senso invisibile delle cose.

l’hommes és inhernentment aggressiu
quan ignora la irrealitat absoluta de l’existència.

l’uomo è intrinsecamente aggressivo
quando ignora l’assoluta irrealtà dell’esistenza.

Eppure è proprio su questa irrealtà che costruiamo il nostro essere al mondo. Ed è proprio sull’aggressività, sul senso di competizione, sull’agonismo (che sconfina nell’edonismo) che abbiamo cercato un senso nel nostro esserci. Una società fondata sulla guerra, quindi, e sull’illusione che il conflitto sia la sola strada: il trionfo di Mara e dell’ignoranza che rasenta l’assurdo, quando si ammanta d’ideale e diventa, ossimoro compatto, guerra di religione.
La poesia di Joan Josep Barceló i Bauçà è dunque invito a rompere il velo di Maya dei nostri giorni di nebbia:

el ritme de la fortuna
és una cancò de bressol que et canten
par adormir-te
només els dies de boira,
però la casualitat
no canta mai
si la llum del sol s’amaga
darrere cortines de fum.

il ritmo della fortuna
è una ninnananna che ti cantano
per addormentarti,
solo nei giorni di nebbia,
ma la possibilità
non canta mai
se la luce del sole si nasconde
dietro tendaggi di fumo.

Solo squarciando il velo di ignoranza, ci diventa possibile, infatti, raggiungere la piena consapevolezza dell’assurdità di questa erronea percezione del nostro essere al mondo. Solo nel momento in cui ci arrendiamo al vero senso e ci sciogliamo nella consapevolezza di esistere all’interno di un sistema di autentiche uguaglianze, ci diventa chiaro, definitivamente, che

és vergonyòs viure on els coflictes bèl-lics
formen part del ser.

és vergonyòs no saber viure.

è vergognoso vivere dove i conflitti bellici
fanno parte dell’essere.

è vergognoso non saper vivere.

Ed è solo con questa consapevolezza di fondo che l’apparente chiusura del cerchio si ribalta nel suo contrario e diviene apertura, accettazione del mondo e del suo mistero intrinseco. Solo così la cecità delle nebbie delle nostre abitudini, si spalanca e cede il passo alla luce del visibile. Joan Josep Barceló i Bauçà lo dice chiaramente: l’atzar és cec (il casuale è cieco), ma

sempre existeix una llum interior
que ho fa totvisible, malgart
que es camina dins la foscor de l’invible.

sempre hi ha un cos i una pell per abracar
i sentir que estimar és l’ùnica raò
per conèixer el qui hi ha més enllà del visible.

c’è sempre una luce interiore
che rende tutto visibile, nonostante
camminiamo nel buio dell’invisibile.

c’è sempre un corpo e una pelle da abbracciare,
e sentire che l’amore è l’unica ragione
per sapere cosa c’è oltre il visibile.

Con la sua poesia fitta di metafore e a un passo dal surrealismo, Joan Josep Barceló i Bauçà con Alla periferia del cerchio (corredato dalle magnifiche foto di Filippo Papa che disegnano all’interno del testo un altro cerchio, diverso, appure affine) compone un possente affresco della condizione esistenziale, memore non solo del qui citato Baudelaire, ma anche dello spirito veggente di un Rimbaud. La sua lezione poetica ha elementi di affinità solo apparenti con certo ermetismo. Per lui la parola non è un tentativo di ingabbiare il senso, quando uno strumento per grattare oltre l’illusione sino a portarci alla percezione/intuizione di un oltre. La sua poesia, in questo anestetizzato occidente, è quindi un atto di resistenza, un’ultima Thule contro l’omologazione imperante. Perché alla fine

només sobreviuen
els que viuen en la periféria del cercle.

sopravvivono solo
quelli che vivono alla periferia del cerchio.


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