A chi cerca la teoria sopra ogni altra cosa, The Visit, l’ultima fatica di M. Night Shyamalan non piacerà granché.
Nella migliore delle ipotesi l’obiezione sarà che il regista di origini indiane, nel disperato tentativo di recuperare il proprio pubblico, piegato e piagato in questa occasione dal basso budget che è anche un ritorno alla povertà di mezzi degli esordi, si è rifatto a un modello formale già vecchio, desueto e datato.
Si dirà che un film del genere avrebbe potuto avere un senso dieci anni fa, ai tempi di The Blair Witch Project, quando il racconto cinematografico con più forza si è dovuto confrontare con l’ingombrante invadenza dei nuovi sistemi di ripresa, ma che ora un film del genere, che mette in scena due ragazzini che filmano la loro vita come fosse materia di documentario, è il trionfo del superfluo.
E chissà cosa avrebbe pensato di un’obiezione come questa lo Stravinsky che, alla fine della sua vita, quando le avanguardie musicali avevano tutte preso altre direzioni, comincia a comporre dodecafonico…
Altri detrattori, fermi sulla narrazione e sulle dinamiche strutturali del racconto, torneranno invece sull’annosa questione del finale, ribadendo come, dopo Il sesto senso, l’autore non sia davvero più riuscito a trovare un ribaltamento drammaturgico delle premesse altrettanto funzionale e così profondamente sorprendente.
Insomma, The visit accumulerà con il tempo le ingenerose riflessioni di chi ancora prova gusto a sparare sulla croce rossa, fallendo per lo più il bersaglio.
Perché, in fondo, Shyamalan non è un teorico del cinema (anche se molta della sua messa in scena apre orizzonti teorici spesso anche intriganti per lo spettatore) e il senso dei suoi finali più che narrativo é musicale dal momento che, in fondo, il regista-narratore non fa che riportare in tonica quegli stessi elementi (narrativi e visivi) che per tutto il film avevamo percepito in dominante.
Da questo punto di vista il finale per il regista indiano, non deve essere sorprendente, quanto piuttosto risolutivo. Se il colpo di scena può essere scoprire che i nonni del racconto non sono chi dicevano di essere, è la riposta che i nipoti danno alla scoperta a gettare un senso sul loro percorso (questo sì musicale) e non viceversa.
Shyamalan è un affabulatore, prima di tutto e sopra ogni cosa. Il suo appoggiarsi allo stilema del found footage non è scelta pauperistica, né base per una riflessione sulle possibilità del racconto per immagini nel mondo di Internet, Facebook e Skype, ma l’appropriarsi di uno strumento narrativo, la scelta di un genere, la definizione di un mero contenitore entro cui continuare a riversare le proprie ossessioni personali.
E The visit è prima di tutto racconto, con le sue pause e i suoi personaggi, è riattualizzazione del link misterioso che lega horror a favola con due bambini che sono un po’ Hansel e Gretel e un po’ Pollicino e che trovano la loro dimensione nello spazio complessivo del disegno narrativo.
All’interno della trama piana di due bambini che vanno in visita ai nonni e ci trovano un lupo (Cappuccetto rosso docet), Shyamalan compone così un’acuta riflessione sull’assurdità dell’esistenza, ritrova nel comportamento incomprensibile dei personaggi echi di un film disperato come E venne il giorno e sfiora, nelle traiettorie di genere, il terrore panico della percezione della follia nel quotidiano, ricompone, infine, la stessa lettura dei segni sparsi di Signs con identica dichiarazione di fede nell’uomo come unico essere capace di riunirli in un disegno superiore, dando loro senso.
E cos’è, in fondo, raccontare, se non riunire i pezzi sparsi dell’esistere, i frammenti innumerevoli e caotici del creato per trovare, sia pure solo nello spazio breve di un film o di una sinfonia, la filigrana di un senso, la percezione di una forma?
The visit è così calato al centro di un’opera, quella del regista di origini indiane, incredibilmente coerente anche nelle cadute (The last airbender), espressione di un pensiero sul presente e attestato di fede nei confronti del potere lenitivo del racconto.
In più ha questa volta un senso ineluttabile del racconto, una percezione malinconica e tristissima dei silenzi, degli abbandoni, dei bisogni e un cast che lo asseconda con una grazia smisurata.
Con questi ingredienti Shyamalan ci consegna sicuramente uno dei film più belli dell’anno.
(The visit); Regia e sceneggiatura: M. Night Shyamalan; fotografia: Maryse Alberti; montaggio: Luke Franco Ciarrocchi interpreti: Kathryn Hahn, Olivia DeJonge, Ed Oxenbould, Deanna Dunagan, Peter McRobbie, Erica Lynne Marszalek; produzione: Blinding Edge Pictures, Blumhouse Productions; distribuzione: Universal Pictures; origine: USA, 2015; durata: 94’