World War Z

Chissà se il nostro crederci la punta della piramide alimentare non dipenda da un semplice errore di prospettiva. Forse le vite che conduciamo e che crediamo così importanti non sono altro che la piccolissima parte di un tutto in cui scompariamo. Forse siamo davvero poco più che globuli rossi che nuotano in un organismo più grande che sfugge alla nostra possibilità di comprensione semplicemente perché non riusciamo a scorgerne i limiti. E forse anche le particelle che scrutiamo nei nostri microscopi sono proprio come noi: ignare di essere osservate da intelletti più vasti e profondi.
La riflessione a largo raggio del grandangolo trasforma l’individuo in cellula e i suoi sogni in puro movimento. Fermarsi equivale a morire nel poco spazio di una pozzanghera, voler vivere significa, invece, continuare a muoversi.

World War Z stempera questa riflessione sul movimento come fonte di salvezza all’interno di un meccanismo di genere che aspira ad ogni passo ad essere altro. E lo fa riportando il discorso su precisi livelli di stratificazione sociale.
Sul piano più piccolo c’è l’individuo che trae la sua ragion d’essere nel suo habitat sociale più immediato: l’unità familiare. Sul piano più grande ci sono, invece, le strutture sociali, le nazioni e gli organismi che ne controllano il giusto funzionamento. Tutto in un gioco di insiemi contenuti l’uno nell’altro come matrioske in cui il singolo è il cuore che riesce ancora a fare la differenza.
In quest’equilibrio precario di bambole poste una dentro l’altra interviene l’azione di un morbo insidioso che si propaga tra gli individui mettendo in crisi l’intero organismo sociale. Il morbo corre in modo inarrestabile, assimila a sé tutti gli individui con cui entra in contatto e sembra destinato a trionfare sulla specie umana. L’unico modo di opporsi alla sua azione è continuare a muoversi, cercare salvezza nel movimento: la famiglia che si chiude in casa è destinata a soccombere, quella che corre in cerca di salvezza, che si muove e si sposta con in mente un obiettivo preciso, trionferà sulle avversità e si ricompatterà nel finale secondo una risposta propositiva (a pensarci) dopo il cupo pessimismo del cinema americano post Twin towers.

Il nuovo film di Forster (che parla di zombie, ma flirta poco con le regole dell’horror) ragiona, anche se con meno abilità teorica, sugli stessi snodi che avevano mosso War of the Worlds prima e Contagion poi: sull’umanità così come la vedrebbe un entomologo. Vale a dire: un inesausto muoversi senza ragione di particelle impazzite.
Del resto il discorso, questa volta, è scientifico più che umanista. La natura qui è vista come il vero serial killer che uccide per il gusto di farlo, con la massima crudeltà e il più alto tasso di spettacolarità, e, come il serial killer, non riesce ad esimersi dal lasciarsi dietro un bel po’ di briciole e indizi per essere poi catturato perché ha poco senso uccidere se poi non ci se ne può prendere il merito. Almeno così dice il giovane epidemiologo (forse l’unico superstite della sua categoria) che va sul luogo del disastro in cerca di campioni per cadere clownescamente sulla sua stessa pistola carica prima ancora di scendere dall’aereo che l’aveva portato fin lì. Bel modo per liquidare, in fondo, l’autorità scientifica in un mondo dove l’uomo giusto è prevalentemente azione e qualche sprazzo di intuizione.

Su questa prospettiva ampia World War Z azzecca, forse, la sua cosa migliore: la visione della catastrofe dall’alto, dal punto di vista del microscopio, con le strade che diventano vene e le persone globuli e col movimento incessante e violento dell’organismo attaccato dal morbo. La definizione della corsa degli zombie nelle strade della città ha la stessa furia delle particelle di un morbo che assale tutto ciò che di sano incontrano sul loro percorso e il modo in cui si affastellano uno sull’altro per superare muri altissimi e raggiungere anche gli elicotteri in volo sembra preso di peso dal vetrino di un microscopio.
A questo sguardo dall’alto Forster aggiunge, però, anche il punto di vista orientato dell’eroe classico dell’action che dappertutto corre (dall’inizio alla fine la sua azione di ricerca è spinta da un radicale bisogno di non fermarsi) e che tutto capisce, anche quello che è precluso agli scienziati che alla prima avversità inciampano senza riuscire a fare la differenza. Trionfo, se vogliamo, di una visione militarista, in cui l’oggetto di valore non è, però quello troppo scivoloso dell’ideale e della bandiera, ma quello ben più tangibile dell’unità familiare.

Sullo squilibrio tra i due piani (individuale e sociale) franano un poco le ambizioni (alte) del film. Convincente, soprattutto a livello visivo, mentre racconta il mondo dal punto di vista dell’entomologo, il film ricade in una certa retorica familista quando chiude su Brad Pitt. Frattanto il racconto si complica con riflessioni anche importanti sul deragliamento etico-politico del mondo contemporaneo con una visione scorata della sempre più difficile convivenza con le nazioni.
Forster ha mano ferma nella direzione ed è abile, soprattutto nella prima parte, a confezionare sequenze di forte tensione. World War Z tocca il suo vertice nell’assolato episodio isrealiano in cui la riflessione antropologica e filosofica riesce davvero a prendere a braccetto uno sguardo non privo di un certo estro visionario. Per il resto è più spesso un buon prodotto di genere.

 

 

(Id.); Regia: Marc Forster; sceneggiatura: J. Michael Straczynski, Matthew Michael Carnahan; fotografia: Robert Richardson; montaggio: Matt Chesse; musica: Marco Beltrami; interpreti: Brad Pitt, Mireille Enos, Eric West, Matthew Fox, James Badge Dale, David Morse, Elyes Gabel, Michiel Huisman, David Andrews, Trevor White, Sterling Jerins, Daniel Newman, Nikola Djuricko, Pierfrancesco Favino; produzione: Plan B Entertainment, Apparatus Productions, Paramount Pictures, Skydance Productions, UTV Motion Pictures; distribuzione: Universal Pictures; origine: USA, 2013; durata: 116’; webinfoSito italiano

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