Hanno scritto e scriveranno ancora, con la classica tracotanza di quelle tristi ovvietà di cui troppo spesso è condita la critica cinematografica, di quanto sia autobiografico, per Peter Jackson, il personaggio di Carl Denham in King Kong.
E certo ci sono molti elementi all’interno del film ad avvallare una tesi che, in fin dei conti è vera quanto, alla fine, poco necessaria: Jack Black, l’attore che lo interpreta, ha, in fondo, la stessa corporatura del regista che lo sta “creando”, lo stesso senso del rischio, la stessa voglia di fare cinema, di trasformare in immagine i propri sogni e le proprie ossessioni.
Eppure, se guardiamo con un po’ più di attenzione il film, ci accorgiamo anche troppo presto che la posizione del regista nei confronti del suo alter ego è ben più complessa di quella semplice e, al fondo, banale immedesimazione che tutti quanti noi siamo, un po’ colpevolmente, andati cercando. Carl Denham, nel film, è, infatti, un personaggio egocentrico, un uomo a tal punto perso nelle sue personali ossessioni da non esitare a sacrificare gli altri pur di riuscire ad ottenere la sua inquadratura ideale. Su Skull Island la macchina da presa jacksoniana lo sorprende spesso ad occupare il ruolo di un ambiguo demiurgo sempre troppo intento a manipolare il mondo che lo circonda. È lui che spinge Driscoll verso il suo eroico salvataggio; è sempre lui che ritarda l’abbassamento del ponte che potrebbe essere la salvezza di Ann Darrow e del suo soccorritore quasi stesse aspettando il momento più giusto per intimare alla sua troupe ideale l’alt delle riprese. Ma, soprattutto, è lui che cattura Kong, che lo porta, senza considerazione alcuna dello scempio che sta operando, a New York e che trasforma un portento della natura e delle emozioni in fenomeno da baraccone, in figura grottesca da esibire. In fondo il momento più significativo della pellicola non è tanto la gigantesca epica avventura che compone la prima parte, quanto piuttosto la scena triste e dolorante dello spettacolo che Denham ricrea, verso la fine del film, per intrattenere un pubblico che beve ogni stilla con stupore infantile e paura di un racconto che è, per noi, trepidanti spettatori in sala, narrato due volte. La versione Denham di King Kong, che occupa polemicamente uno spazio infimo della narrazione, è, da questo punto di vista il trionfo dello spettacolo fine a stesso, una semplificazione in cui l’orrore dell’impatto con l’alterità di una cultura arcaica sconosciuta (uno shock culturale palesemente non capito dallo stesso personaggio che crede di potersi fare amici dei poveri “selvaggi” brandendo una semplice barretta di cioccolata) viene tradotto in un balletto etnico elementare e in cui il dolore per i lutti, per gli amici morti e lasciati indietro, cede il passo allo sfarfallio di qualche goffa luce da palcoscenico. Denham ama fino in fondo quel film che vive nelle pieghe della realtà e che non ha potuto filmare perché la macchina da presa, precipitata nella fossa dei ragni, non ha potuto conservare, ma egli ha impresso nel proprio DNA quella che è, in fondo, la maledizione di ogni regista: uccide proprio quella realtà che ama e che vorrebbe preservare dall’oblio.
E se ci pensiamo bene deve essere stata questa la paura di Peter Jackson nel realizzare questo film monumentale e spesso magnifico: trasformare, come fa Denham, l’esperienza del mondo di King Kong in mero spettacolo, mortificare quella magia propria della pellicola del ’33 (quella stessa che aveva convinto uno stupefatto bambino ad intraprendere quel cammino che lo avrebbe portato a girare Il Signore degli anelli) in un giocattolo ipertecnologico innocuo e noioso.
Se c’è qualcosa che rende viva e palpitante un’opera come King Kong questo non è né il senso di avventura che ne permea ogni fibra, né gli omaggi cinefili di cui è intessuta, né la maestria registica in essa dispiegata, quanto piuttosto quella costante sotterranea, ma sempre percepibile, paura di “far male” che sembra guidare il regista come un Virgilio premuroso negli inferi della realizzazione del film stesso.
L’operazione di remake portata avanti da Jackson perde, quindi, prestissimo quella connotazione un po’ naif e molto semplicisitica tipica dell’industria hollywoodiana e si trasforma in una vera e propria operazione teorica sul significato stesso del concetto di remake.
Per questo bisogna andarci cauti quando si dice che tutta la prima parte del film è un immenso omaggio alle potenzialità del cinema e alle sue capacità affabulatorie. Perché è lo stesso regista ad essere molto critico sulle possibilità spettacolari del giocattolo con cui si sta palesemente divertendo. Peter Jackson ama il cinema, ma il suo è un Amore con la maiuscola, non quella passione fugace di molti cinefili che si sono a tal punto abbeverati dei frutti dell’immaginario da non riuscire più a distinguere la realtà dalla finzione. Il suo è un sentimento intriso di nostalgia e di sgomento, ma denso anche di critica e di raziocinio. Del cinema il regista ci racconta tutto lo sfarfallio fugace, ma non dimentica mai di ricordare che a fianco di una realtà di sogno che tanto piaceva al suo io bambino viveva anche l’altra realtà, quella di un mondo impoverito nella fame e nell’ignoranza (la Grande depressione, ma anche l’oggi) che usa(va) quello stesso sogno per anestetizzare le masse.
King Kong è, quindi, un film dalle mille anime, un’opera tersa, non sempre perfetta, spesso immensa che riesce a riconciliare la dimensione high budget de Il Signore degli anelli con l’ironia asprigna degli esordi jacksoniani (mirabile l’incipit del film con il suo sapore grottesco di un quasi documentario sulla Grande Depressione). Ma è soprattutto un film dalla doppia anima, che trascolora dal divertissment più puro (la scena della caduta dei brontosauri in corsa è un esempio fulgido di un uso ironico degli effetti digitali tutta giocata com’è sull’accumulo e l’assurdo) al melodramma più fiammeggiante ed emozionante. Un film sul senso stesso dell’avventura come scopre il Jimmy di Jamie Bell (il personaggio più nuovo del film) rileggendo la sua stessa vita alla luce di Cuore di tenebra di Conrad. Ma soprattutto un film che segna, per Jackson, la fine di una parabola personale profonda. Perché checché ne dica Denahm che alla fine del film esclama che è stata la Bella ad uccidere la Bestia, il buon Peter sa benissimo, e noi con lui, che il solo colpevole della morte di Kong è ancora una volta l’amato cinema che deve sempre uccidere tragicamente la propria creatura per consegnarla al mito collettivo.
[dicembre 2005]
King Kong; Regia: Peter Jackson; sceneggiatura: Peter Jackson, Philippa Boyens, Frances Walsh; fotografia: Andrew Lesnie; montaggio: Jamie Selkirk; musiche: James Newton Howard; interpreti: Naomi Watts, Jack Black, Adrien Brody, Jamie Bell, Colin Hanks, Andy Serkis, Thomas Kretschmann; produzione: Peter Jackson, Frances Walsh, distribuzione: UIP; web info: Sito ufficiale, Sito italiano