Di mestiere faccio il paesologo


 

Quand’era il modello culturale dominante, il mondo contadino era un giogo chiuso ed oppressivo di regole dettate dal ritmo della terra.
Nato per zappare, da famiglie di zappatori, l’individuo aveva poca scelta per il suo avvenire. Il paese, luogo dell’immobilismo, immobile a sua volta, decideva ogni cosa al posto tuo. I ritmi della giornata sottostavano quieti ai rintocchi di un campanile che poca ombra faceva nei meriggiare senza nuvole. Quelli della vita li scandiva, invece, il ciclo delle stagioni con le sue piogge e i suoi venti secchi, con la neve e le foglie cadute tra i campi.
Il lavoro era sudore, di quello che non ti viene facile cantare con lo sguardo esotico del viaggiatore distratto. Ti si scolpiva nelle mani coi calli e col segno duro della terra tra le unghie che non la lavi via neanche con cento litri d’acqua. E il tuo lavoro te lo portavi nelle rughe, anche da vecchio, chino sotto gli acciacchi dell’età, come una condanna che dalla culla si allungava, come un’ombra, sin sulla soglia della tomba del cimitero.
Fuori la città, col suo mito, resisteva come tentazione di cambiamento, come in Aurora di Murnau. Luogo dove tutto e possibile, ad arrivarci col giusto grado di speranza e con la consapevolezza che sarai additato a lungo come campagnolo, come contadino.
Contadino ci nascevi e non ne uscivi fuori. Ed era tua prigione proprio lo spazio aperto del paese: quel giro di mura nelle quali tutti ti conoscevano e tu conoscevi tutti in strade strette in cui di fronte ad ogni finestra c’era un’altra finestra e di fronte ad ogni uscio, un altro uscio.
Poi il modello culturale s’è fatto un altro e il mondo contadino è diventato quello sconfitto, popolato da sconfitti. Se lo guardi dentro ci vedi solo quel fallimento che non ammetti senza una punta di vergogna. Così se glielo chiedi oggi ad un contadino di paese che lavoro fa, questo ti risponde un po’ adombrato, con un pizzico di pudore che non si fa rossore perché un po’ d’orgoglio ancora resta. Meglio sarebbe dire impiegato nella Fiat anche se questo significa essere schiavo d’una catena di montaggio ben più pesante d’un aratro o di una zappa.
E quelli che erano i paesi di montagna, abbarbicati su un cucuzzolo ad accarezzare le stelle di notte, si sono col tempo svuotati, hanno ceduto il passo ad una morte lenta. Il borgo, così come lo si conosceva una volta, tende a sparire. Si slabbra nelle periferie piene di villette di impiegati comunali che, incapaci ad avventurarsi in città non sono stati neanche in grado di lasciare il paese natio. Traditori sociali, hanno volto le spalle alle strade che li hanno visti nascere senza essere capaci di diventare “altro”.
Nei paesini, ora ci sono tante strade in cui si vivono, sempre più rari, doppi lutti: quelli per gli anziani che muoiono e quelli per le case che, senza più occupanti, chiudono.
Il borgo contadino muore un po’ per volta. Muore quando chi ci vive, stanco dei muli, compra automobili. Muore quando si riempie di piazze sempre più vuote e sempre più pulite.
In queste realtà si muove Franco Arminio. Di mestiere: paesologo. Cresciuto all’ombra del suo campanile, incapace ad andarsene, ma anche inabile a restare, piuttosto che tradirlo il suo mondo, se n’è fatto cantore. Lo descrive a passi piani, in versi che a stento dici tali tanto sono semplici e profondi. Dà parole al suo mondo e nel raccontarlo lo fa poesia perché, in fondo, è un mondo fallito come un mondo fallito è sempre anche il poeta. Ce lo racconta Andrea D’Ambrosio in Di mestiere faccio il paesologo, uno dei documentari più belli che ci sia capitato di vedere in questi anni. Bello perché, come il personaggio che mette in scena e come i paesi attraversati, è sporco, a tratti grezzo. Rifiuta la messa in posa e con essa l’immagine bella che sta lì solo a far mostra di se stessa. La ricerca è piuttosto quella dell’immagine vera. Così vera che quando la riconosci tale devi ammettere anche che è bella. Bella come le vecchiette che Arminio intervista e abbraccia. O come le viuzze stampigliate sulla fronte delle montagne come rughe d’altri tempi. O, infine, come lo stesso Arminio che s’è a tal punto immerso nel suo mestiere di paesologo che la sua stessa carne s’è fatta di pietra e sassi, di calce e vetri rotti.
Così l’immagine a tratti pasoliniana si riempie di compianto. Del Pasolini ha lo sguardo verso un mondo che muore, che si disfa proprio mentre lo si filma. Ma del Pasolini gli manca la violenza, lo sguardo polemico. Del resto la consunzione del mondo contadino è andata troppo avanti, è metastasi troppo diffusa per sdegnare. La si può semmai accompagnare mentre scivola nel buio. Registrandone senza troppe commozioni e col giusto grado di lucidità, il lento andare.

La qualità audio-video

Il quadro, nel suo limpido 4/3, è pulito e nitido. Qualche difetto di grana, qualche incertezza nei colori sono, forse, più conseguenza delle spesso precarie condizioni di ripresa che non di una scarsa cura nella compressione. Nel complesso la qualità è buona e, comunque adeguata ai bisogni del documentario.
L’audio è uno stereo non particolarmente avvolgente e puntato prevalentemente sui frontali. Forse uno studio più accurato delle possibilità di una ripresa dolby degli spazi sonori avrebbe giovato alla coerenza dell’insieme, ma anche così i risultati paiono abbastanza buoni.

Extra

Lo speciale e le due interviste ospitate su disco ampliano il discorso in maniera significativa e meritano senz’altro la visione. Ma il vero grade extra è il bellissimo libro di Franco Arminio Le vacche erano vacche e gli uomini farfalle, una raccolta poetica di grandissima suggestione e di notevole importanza estetica. Un atto d’amore nei confronti del mondo contadino che non dovrebbe assolutamente passare inosservato.

 

 

(Di mestiere faccio il paesologo); Regia: Andrea D’Ambrosio; genere: documentario; distribuzione dvd: Derive e approdi _ formato video: 1.33:1 (4/3); audio: Italiano Dolby digital stereo; sottotitoli: italiano e francese

Extra: 1) Speciale: “Riflessi di Paesologia” 2) Intervista ad Andrea D’Ambrosio 3) Intervista ai Paranza Vibes 4) Libro: Le vacche erano vacche e gli uomini farfalle di Franco Arminio

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