Esterno notte: un caracollante camera car sorprende lo scorcio di una strada di una tipica città americana fitta di villette con nani da giardino sull’uscio di casa. Una di queste è in fiamme. La macchina da presa la supera con divina indifferenza e presegue il suo percorso a filo di strada. Incontra anche due loschi figuri che, dando di spalle ad un incendio che non sembrava meritare la nostra attenzione, chiacchierano a ridacchiano come ragazzini complici di una bravata. Non sembrano importanti neanche loro dal momento che la macchina da presa, concentrata nel suo limpido movimento lineare, li supera per perdersi nella notte delle tante villette del sogno americano.
In realtà il movimento di macchina, eterno nel suo incedere, ha isolato, quasi per caso, quasi non fosse voluto, una causa ed un effetto. L’effetto è il rogo che consuma nelle fondamenta un pezzetto di vita borghese, quasi sorpreso dalla notte che avanza e tutto mangia; la causa sono proprio i due giovanotti che, allegramente, lasciano il posto del loro delitto e cercano, nel buio complice, altre prede, altre vite, altri momenti.
La scelta registica è magnificata nella seconda inquadratura che, riprendendo un movimento lineare (questa volta una carrellata che, dall’alto, sovrasta una serie di tavoli tutti uguali di un tipico caffè americano), sancisce la definitiva affermazione di un sistema secondo il quale non conta tanto la realtà filmata, quanto l’atto stesso di filmarla. La macchina da presa è indifferente rispetto all’oggetto filmato, lo percepisce come immagine da imprimere, di cui conservare un simulacro, ma non si pone quesiti di ordine morale relativi al suo agire. E’ un meccanismo che attende paziente l’attivazione da parte di terzi (o non attende, ma registra perenne come nel caso delle telecamere a circuiti chiusi) e che, altrettanto docilmente si spegne quando qualcuno le toglie la corrente elettrica.
Questo sistema è alimentato dalle aspettative di un pubblico sempre più famelico di riprese. Un pubblico talmente assuefatto al gergo sporco delle immagini medie dell’industria hollywoodiana che non si pone più di tanto il problema della realtà di quanto va vedendo. Un sistema impersonale che si nutre di persone, che le trasforma in immagini da consumare e che è altrettanto pronto, una volta che l’immagine può dirsi del tutto usurata, ad accartocciarla come una lattina nel rapido riciclo delle mode.
Per questo pubblico non è tanto importante che quel che vede siano le gesta di un serial killer (o due come in questo caso) o i presunti flirt della star hollywoodiana di turno sorpresa dai paparazzi in pose osè nei posti più imporobabili. Quel che conta è che l’immagine sia consumbaile, abbia appeal di suo. Del resto un documentario su un serail killer non potrebbe che essere un falso, come spesso sono abili manipolazioni di verità le scapattelle dei divi hollywoodiani arrestati per eccesso di velocità.
Il sistema implica un pubblico prima ancora di un regista. La domanda che Shia Labeouf pone allo spettatore di Maniac non è tanto quella di come sia possibile che un regista filmi (sia pure in un mockumentary) le gesta efferate di due serial killer, quanto piuttosto di come sia possibile che un pubblico consumi quelle immagini e, quindi, le compri. Il vero mostro è fuori scena e noi tutti, regista compreso, ne siamo più o meno consapevoli ingranaggi, spesso incapaci di opporci al movimento del meccanismo, all’eterna carrellata tra le ipocrite realtà del sogno americano.
L’idea di un falso documentario sulle gesta di due serial killer non è nuova, in Europa aveva già dato qualche strano frutto, ma Shia Labeouf riesce ad attualizza nel contesto americano con insospettata eleganza di tocco.
Maniac supera la riflessione sulla realtà fenomenologica insita nel sistema europeo che ancora si dibatte nella iato tra realtà e finzione e lo cala in un contesto insospettabilmente hollywoodiano di relatà/finzione e finzione/realtà.
Porta avanti il suo lavoro prima ancora che a livello teorico a livello strettamente pragmatico in cerca, nel profluvio delle finte immagini del cinema, di quelle che siano prima di tutto visione.
Non è poco per il divo della serie di Transformers.