Tutti i film di Godard pongono sempre l’accento prima di tutto sul problema della comunicazione. Ma, a differenza del cinema americano (e, per consequenzialità del 90% del cinema mondiale che sui modelli del cinema statunitense fonda tutta la propria strategia comunicativa), in Godard non conta mai il messaggio come punto d’arrivo del processo comunicativo quanto piuttosto l’utente cui questa comunicazione vuole rivolgersi. Il messaggio, in quanto tale, emerge, quindi, a posteriori, dalla tecnica, dalla grammatica che il regista impiega quando mette in moto un nuovo processo comunicativo e non vuole mai essere immanente o precedente al film. Godard gira per girare, perché nella sua concezione di Cinema, l’atto del filmare equivale, per certi aspetti, a quello del respirare: è un’azione necessaria e quasi indipendente da qualsiasi preoccupazione autoriale. Il senso di ogni pellicola, quindi, non precede il linguaggio filmico, ma sorge con esso, e si definisce gradualmente con esso: non preesiste, ma coesiste. Qual è, dunque, lo spettatore ideale cui si rivolge Notre musique? A ben guardare è uno spettatore certamente colto, ma la cui intelligenza rischia di essere ormai compromessa dalla pratica bassa del consumo televisivo, uno spettatore che va blandito prima di essere scioccato e che, soprattutto, va destituito da quella posizione che proprio la televisione sembra avergli regalato: quella di uno spettatore onnisciente (che, però, ci dice il regista, propone solo un consumo superficiale di immagini e di significati preconfezionati). E mentre Godard parla “con” questo spettatore (che resta sempre un gradino al di sopra dello spettatore medio cinematografico) finisce anche per parlare “di” questo spettatore rivelando una precisa volontà metelinguistica che, tutto sommato, mancava alle ultime sue opere. Diviso in tre cantiche (Inferno, Purgatorio e Paradiso), Notre musique si pone quindi in precisa posizione altra rispetto alla logica mass mediologica che domina il pensiero comunicativo di questo inizio millennio (logica che invece viene ad esempio cavalcata da Michael Moore non a caso discretamente disprezzato da Godard). Andare, quindi, alla ricerca del rimosso, dell’elemento perturbante, di ciò che apparentemente non interessa a media come la televisione o Internet per farlo diventare centro del proprio discorso personale e della propria utopia comunicativa. Per questo motivo l’Inferno (che si dispiega in una visione della Guerra altamente formalizzata) occupa una parte ben misera nell’economia della pellicola. Risolvendosi in una successione non cronologica di scene di guerra, questo segmento audiovisivo rappresenta già il mondo immanente e le logiche discorsive con le quali esso si rappresenta a se stesso (esaltazione della spettacolarità dell’evento bellico, ricerca di inquadrature fortemente riconoscibili in quanto parti di un immaginario già abbondantemente radicato ecc.). L’azione godardiana si limita, quindi, a restituire questi aspetti noti in una forma quasi cubista che vuole farci giungere alla consapevolizzazione quasi sartriana che l’Inferno siamo noi, ma non perché facciamo Guerra (non solo perlomeno), ma perché parliamo della Guerra in questi termini, con questo linguaggio. Conclusasi la ridda mediatica della prima sezione, può finalmente iniziare Il Purgatorio che, da questo punto di vista è la parte più importante di tutto il film (lo dimostrerebbe la lunghezza dell’episodio che costituisce i tre quarti dell’intero progetto). Qui il regista insegue il suo discorso di sempre: portare con ogni mezzo il cinema in quei luoghi in cui il cinema non è mai stesso. In questo caso il luogo è Sarajevo, dimenticata dai mezzi di informazione dopo che si ha avuto l’impressione che la Guerra fosse finita. Godard rincorre luoghi della memoria e della speranza: si concentra sull’apertura di un salone del libro (luogo metaforico in cui uomini-libro mutuati direttamente da Truffaut recitano brani del loro sapere in stanze distrutte dalla Guerra) e sulla ricostruzione del ponte di Mostar solo molto recentemente completata. Il Purgatorio si invera ben presto come una sorta di metafora della vita persa in un clima sospeso tra gli orrori di una catastrofe vicina e la speranza per un futuro migliore. Un luogo arcano che, proprio in virtù della sua indeterminatezza non può interessare i mass media e resta per sempre ancorato nel luogo del “non detto” (vero e proprio purgatorio della comunicazione). Ma resta preso in queste maglie anche un pregante discorso sulla situazione palestinese che, pur mostrata dai media non viene mai compresa in quelle che sono le sue reali dimensioni. Da questo punto di vista assume preciso significato polemico il segmento finale del film, Il Paradiso, in cui il sarcasmo godardiano tocca il suo acme nella descrizione di un ritrovato giardino dell’eden presidiato da marines americani.
(Notre musique); Regia: Jean-Luc Godard; sceneggiatura: Jean-Luc Godard; fotografia: Julien Hirsch, Jean-Christophe Beauvallet; interpreti: Nade Dieu, Rony Kramer, Sarah Adler, Jean-Christophe Beauvallet, Simon Eine, Jean-Luc Godard; produzione: Les Film Alain Sarde, Peripheria, Canal +, Tsr, Vega film ag.; origine: Francia, 2004