“Fury” di David Ayer


 

Aprile 1945. Gli Alleati sono ormai in Germania e le truppe del Terzo Reich sono ridotte alla stregua di una belva morente e sanguinante che è, proprio per questo, ancora più pericolosa.
La confusione regna sovrana sulle macerie e tra i calcinacci delle piccole e gradi città. Le strade, invece, sono insidie piene di pericoli che bisogna purtroppo attraversare anche solo per un tozzo di pane raffermo.
Le truppe combattono, sullo sfondo di questo tragico tramonto insanguinato, senza avere veramente chiaro neanche il motivo.
Si va avanti perché questi sono gli ordini, perché questa è l’unica strada capace di dare un senso a un paesaggio di fango, ma si è persa la vista di ogni bandiera.
Per gli americani, in particolare, la parola d’ordine è ammazzare quanti più tedeschi possibile. Per quello, in fondo, sono pagati e hanno dalla loro parte la certezza che resta in piedi solo chi spara per primo.
La loro non è una lotta per la libertà, per un ideale, per un pensiero, ma una semplice questione di sopravvivenza. Perché la Guerra lava via ogni idea dagli sguardi e dagli occhi di chi combatte. Un giorno al fronte, alla fine, significa arrendersi agli istinti più elementari, un ritorno a quella legge di natura che ci fa schiavi della fame, del bisogno di dormire, dello stringerti a un fratello che ti scaldi quando è notte e fa freddo, ma che pure ti punge perché ha paura quanto te.

La cosa più bella di Fury, che è un film meno innovativo di quanto si vorrebbe credere, è nel racconto quasi ungarettiano, di questo stare insieme disperato di soldati che devono condividere prima di tutto il terrore della morte.
Ragazzi costretti nello stesso reggimento dalle regole di un esercito che è nemico quasi quanto tutto ciò che si combatte al fronte.
Ragazzi che non si conoscono mai abbastanza e con cui è meglio non fraternizzare troppo perché in trincea si sta “come d’autunno sugli alberi le foglie”.
Uomini che devono imparare troppo presto l’orrore del rinunciare al sogno di pensarsi “buoni” perché la fame di vita non scende a compromessi con idee obsolete e lente come Bene e Male.

Quando nel carro armato Sherman comandato dal sergente Wardaddy, arriva il soldato semplice Norman Ellison, la legge della sopravvivenza di chi combatte in prima linea accorcia tutti i tempi del più classico romanzo di formazione. In Guerra non c’è tempo per capire. L’attesa tra il vedere e il premere un grilletto è un lusso troppo grande. E la recluta fresca che si era preparata a una guerra di carta che viene, invece, assegnata come rimpiazzo per un equipaggio di un carro armato è danno e beffa che si prendono a braccetto.
Wardaddy sa bene che quel ragazzo, inesperto e giovane, che la guerra non l’ha vista probabilmente neanche al cinema, è un problema grosso. Non solo perché non sa combattere, ma perché i suoi valori non si sono ancora confrontati con la certezza della morte. La sua innocenza, quindi, va sporcata più rapidamente possibile perché è il punto debole di un esercito che non può permettersi il lusso di mani troppo pulite. Però quell’innocenza grida negli occhi degli altri con la forza di un ricordo e di un rimpianto. Il ricordo di quando si era ancora ugualmente innocenti, prima della guerra, e il rimpianto di non aver potuto nulla per conservare, nell’orrore dei combattimenti, un po’ di quella luce bella.

Quel che riesce splendidamente bene a Fury è la descrizione di questo groviglio di sentimenti, di questo amore e odio intorcinati insieme in un nodo troppo stretto. Amore per l’altro e odio per se stessi e per quello che si è accettato di diventare.
In queste coordinate oscure prende corpo un intreccio di relazioni interpersonali oblique e dolorose in cui i sentimenti sono come schegge di vetro che feriscono tanto chi li prova quanto gli altri in un mare di contraddizioni che è forte quasi quanto la paura.
Un mosaico che riesce bene perché, quando il film si stringe nelle dimensioni del dramma da camera, può contare su un impegno attoriale a tratti superbo. Il lavoro di ogni singolo interprete sui sottotesti impliciti nel ruolo è spesso impressionante. Brad Pitt trova una convincente sintesi tra sentimenti paterni e fatica della guerra e del suo ruolo di comando consegnandoci il suo personaggio meno autoironico e più lacerato. Da parte sua Logan Lerman costruisce il personaggio senza cadere nello stereotipo della recluta acerba, riuscendo a dosare rabbia repressa, paura e un senso ineluttabile di fine dell’adolescenza e trovando un difficile equilibrio tra adesione emotiva al personaggio e un bisogno di distanza critica. Shia LaBeouf, infine, rende convincente un personaggio che non smette di avere fede, senza ingenuità e con tutto il peso di mani che restano sporche comunque di sangue.
Prove d’attore, le loro, che risultano convincenti prima di tutto perché trovano la loro ragion d’essere nel lavoro di quadra, nell’affiatamento di un gruppo che funziona perché ognuno ha trovato il suo posto.

Convincente nel suo ostentato rifiuto di ogni retorica guerresca, Fury colpisce per la precisione con cui smonta la figura dell’eroe di guerra. Qui i soldati non combattono per bandiere o ideali politici, ma per quell’ultimo pezzo di mondo che riescono ancora a chiamare casa: la pancia del carro armato.
Anche quando si accollano la missione suicida di tenere la posizione quasi senza armi, questi uomini non assumono dimensioni epiche, ma restano appunto uomini. La loro decisione non nasce da un bisogno di grandezza, ma risiede tutta nella loro piccolezza. Più folle che eroica.

Fury perde quota, piuttosto, nei momenti in cui abbandona il primo piano e cerca il campo lungo della Storia.
Come film di genere, poi, è poco convincente nell’azione (troppo veloce per i tempi di un carro armato eppure troppo lenta per il pubblico contemporaneo) e nella massa.
Non cede alla tentazione di rendere estetico l’orrore, ma neanche trova la strada di un realismo piano e semplice che l’avrebbe forse reso un po’ più bello.
Però è un film solido, con una grande idea di cinema e un suo perché.

 

 

(Fury); Regia e sceneggiatura: David Ayer; fotografia: Roman Vasyanov; montaggio: Dody Dorn; musica: Steven Price; interpreti: Brad Pitt, Logan Lerman, Shia LaBeouf, Jon Bernthal, Michael Peña, Scott Eastwood, Xavier Samuel, Jason Isaacs, Jim Parrack, Branko Tomovic, Brad William Henke; produzione: Grisbi Productions, Le, QED International; origine: USA, 2014; durata: 135’

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

error: Il contenuto è protetto