Il sole che batte, nel titolo del film di Philippe Petit, presentato in concorso nella Settimana Internazionale della Critica di questa edizione del Festival di Venezia, è quello caldo di Marsiglia. Un sole forte, estivo, che diventa spietato quando, al suo incontro con la terra, non riscalda alberi o siepi, ma asfalto e rotonde.
A Marsiglia, di posti così tanto sventurati ce ne sono diversi. Tutti in qualche modo testimoni di condizioni di vita non facili e di esistenze borderline.
Luoghi in cui, nella migliore delle ipotesi, i marciapiedi diventano piste di skate e la terra battuta e senza verde, un triste calpestabile pronto a farsi fango scivoloso al primo scroscio.
Max, il protagonista di Tant que le soleil frappe (titolo internazionale: Beating Sun) un posto del genere lo vede tutti i giorni, affacciandosi dal terrazzo di casa sua, ed essendo lui un paesaggista arredatore di spazi urbani, sin da subito comincia ad accarezzare l’idea di un progetto che riqualifichi questo spazio tanto abbandonato.
Dal suo punto di vista, che è anche quello di un cinema francese che ha appreso non poco la lezione di un Rohmer e il suo modo di filmare gli spazi urbani, rimodellare quello spazio non serve solo a dare respiro a un angolo di città, ma a ridisegnare un destino, a dare la possibilità di un riscatto sociale a tutte le persone che tristemente lo popolano, facendo le proprie anime a immagine e somiglianza della terra desolata che attraversano tutti i giorni.
Sin qui gli aspetti belli di Tant que le soleil frappe che fa della visione a grandangolo dello spazio urbano e del racconto di come l’uomo trasformi l’ambiente e ne sia a sua volta trasformato, i suoi cuori pulsanti. Se ci sono momenti di poesia, nella pellicola di Philippe Petit, questi sono appunto nelle riunioni di quartiere, nei momenti in cui i personaggi di una varia umanità si riuniscono all’insegna di uno spazio che deve cambiare, che deve cessare di essere alienante non-luogo in cui sopravvivere, per diventare ponte di scambio, di comunicazione sociale, in cui il verde è solo il punto di partenza per un’idea totalmente nuova di città.
Se sono questi i motivi che rendono il film interessante, meno avvincente appare l’arco narrativo che attraversa le tappe salienti di una presa di posizione polemica da parte del protagonista che, dopo aver sfiorato, con il suo progetto, la vittoria di un concorso di architettura, comincia a muoversi tra i bandi del comune e le sponsorizzazioni, toccando con mano quanto anche gli ideali più santi finiscano per soccombere di fronte alle ragioni del commercio che vorrebbero hotel 5 stelle (magari anche con giardino annesso) in qualsiasi spazio urbano in barba ai bisogni di chi, in quello spazio, c’era già da prima.
E se il finale, annullando ogni spazio tra i fumogeni dei manifestanti, allarga lo sguardo oltre i limiti del quartiere lasciandoci intravedere, in filigrana, preoccupazioni ecologiste di ben più ampia portata, nondimeno si ha l’impressione che la parte migliore del film sia già passata e l’ultima metà, purtroppo, sembra essere solo cose che succedono.
Tant que le soleil frappe – Regia: Philippe Petit; sceneggiatura: Philippe Petit in collaborazione con Marcia Romano, Laurette Polmanss e Mathieu Robin; fotografia: Pierre-Hubert Martin; montaggio: Valentin Féron; musica: Andy Cartwright; interpreti: Swann Arlaud, Sarah Adler, Grégoire Oestermann, Pascal Rénéric, Lee Fortuné-Petit, Djibril Cissé, Marc Robert, Philippe Petit; produzione: Frédéric Dubreuil per Envie de Tempête Productions; origine: Francia, 2022; durata 85′