Pirandello ha concepito Enrico IV, da molti ritenuto il suo capolavoro, come un dramma in tre atti.
L’aveva pensato per Ruggero Ruggeri e, sulle corde interpretative di questo attore gigantesco, aveva costruito l’ironia saturnina di un personaggio chiuso nella sua lucida follia.
Soprattutto l’aveva pensato in grande, con tante persone a correre sulla scena, tante sottotracce, tante piccole storie in cerca di luce.
L’inizio del dramma è strettamente imparentato a questo bisogno di proporzioni, a questa storia che, pur concentrandosi apparentemente nel chiuso delle unità aristoteliche, si allarga a venti anni di non vita.
Comincia con un movimento lento Enrico IV. Con quella che potrebbe essere l’equivalente teatrale di una lenta panoramica cinematografica che va a stringere, con estrema lentezza, sul primo piano significante dell’attore principale e del suo messaggio. Comincia nel mondo delle comparse, nello spazio della servitù costretta a interpretare un ruolo, tra le parole di quei personaggi così piccoli che, pur parlando tra loro, possono lasciarsi dietro solo coro.
Poi, con abile mossa di consumato narratore, girando appena di qualche grado la ghiera graduata dell’obiettivo, il testo mette finalmente a fuoco gli attori principali, i protagonisti del dramma.
Solo alla fine, a chiusura del primo dei tre atti, con ritardo estremo sulle aspettative del pubblico, Pirandello fa entrare in scena Enrico IV con l’ingombro dell’attore che se ne è fatto carico.
Questo complesso gioco di rimandi non è mero artificio retorico perché qui, in queste tante pagine, Pirandello ha tempo e modo di creare non un contesto, ma due.
Il primo è quello dell’antefatto, la storia di una festa in maschera in cui un uomo cade da cavallo, batte la testa e si risveglia pensando di essere la maschera che indossa.
Il secondo è quello dell’eterno presente della scena, della finzione, del perpetuarsi della mascherata che il mondo costruisce intorno al folle per non chiuderlo in manicomio.
Il gioco delle rifrazioni non potrebbe essere più vorticoso in questo rincorrersi tra presente e passato, tra finzione e realtà, tra maschera e creatura. Anche perché sulla scena, per estremo paradosso, il mondo attuale, il presente, è tutto una finzione sotto cui, riconosci, in filigrana i conflitti non risolti del passato. E questo gioco di reciproca dissolvenza tra ieri, l’altroieri e oggi (in un mondo cui il futuro resta negato nell’eterna fissità della scena) è il tratto dolente e vero di un’autentica tragedia.
Nella scelta di costruire su questo testo formidabile, un atto unico, tutta questa prima parte viene tagliata via e rapidamente sintetizzata in poche battute di preambolo.
L’Enrico IV del Teatro Abeliano di Bari, quindi, rinuncia al lento costruirsi della scena, al graduale concentrarsi dell’attenzione, al sovrapporsi graduato di tanti passati più o meno veri (quello della corte dell’autentico Enrico IV, quello della festa in maschera) su un presente di cartapesta e sartoria.
A venir meno non sono i temi pirandelliani che, anzi, non solo restano miracolosamente integri, ma si cristallizzano nella precisione del diamante, ma il senso spiccatamente teatrale dell’operazione pirandelliana.
Tutto il teatro di Pirandello nasce nel continuo braccio di ferro tra le ragioni della scena e quelle della filosofia, l’Enrico IV per la regia di Vito Signorile risolve la dicotomia lasciando sulla scena quasi solo la filosofia. O, forse, meglio: andando a ricercarsi sul tavolato del teatro una sua personale filosofia della scena.
Dal testo pirandelliano, il regista tira via tutto quello che non è strettamente pensiero e, quindi, paradossalmente toglie via molto teatro dal teatro. Scelta felice per l’operazione culturale, rischiosa per quella strettamente spettacolare.
Rischiosa perché, se è vero che nulla si perde in contenuti, è anche vero che a soffrirne è molto il contesto, il coro.
Nel taglio di tutte le scene di contorno, infatti, si perde tutto il complesso di voci dei servitori che aiutano a chiarire il senso del protagonista attraverso il loro sguardo obliquo. La loro funzione per Pirandello è appunto coreutica, per Vito Signorile, che riduce il conto a solo due personaggi, è solo di sostegno. In questo modo, però, i due confidenti, amici del finto pazzo che tradiscono venendo puniti con la morte sulla scena (che nel mondo della finzione coincide col licenziamento) diventano dei novelli Rosencrantz e Guildestern in una corte di complotti che non capiscono.
In effetti il grosso dei temi dell’opera è incarnato proprio da Enrico, maschera fissa che si cerca, oltre la scena, nel tentativo di ritornare pirandelliana creatura. E il personaggio non perde nulla rispetto alle intenzioni dell’autore, grazie anche all’immensa interpretazione di Antonio Salines che riempie la scena di un’energia intensa e profonda.
La rinuncia, calcolata e lucidamente perseguita, è tutta negli altri personaggi che si sfocano al punto che il regista, con felicissima intuizione, li riduce a pupi, li congela nella fissità del loro essere maschere, privandoli anche, laddove possibile, di controscene. Sembra quasi che essi possano esistere solo se lo sguardo di Enrico dà loro licenza di essere. Altrimenti la loro posizione li tiene a un passo dal buio nulla sempre sul punto di mangiarli. E forse una maggiore esasperazione della loro dimensione di niente più che maschere avrebbe giovato ad un’idea di messa in scena più sperimentale: una strada che non si è voluto prendere.
Viceversa Enrico si carica di tutto il peso della scena. Demiurgo della sua stessa follia, diventa alter ego del drammaturgo nel costruire tutto il recìt. Sa bene, il personaggio, che è a lui che devono la vita tutti gli altri corpi sulla scena. Personaggi che hanno tragicamente smesso di cercare.