La leggenda del Grande Inquisitore è, paradossalmente, sfortunata per via di un incredibile eccesso di fortuna.
Piccola abbastanza da sembrare conchiusa, essa è stata, nel tempo, troppo spesso isolata dal libro di cui era parte integrante e letta come cosa a sé stante, come un capolavoro autonomo che non ha bisogno di altro che delle poche pagine che lo contengono per continuare misteriosamente a significare.
Eppure gran parte della sua luce fosca gli deriva proprio dal contesto, dal suo essere un racconto dentro un racconto in un gioco cangiante di incastri in cui la cornice si confonde con il dipinto e in cui il dialogo impossibile tra Cristo e l’inquisitore rilancia e illumina un altro dialogo altrettanto impossibile: quello tra le ragioni dell’angoscia del dubbio morale e l’insondabile e gratuita luminosità del perdono.
Il tutto dentro un’osteria invasa dal fumo e dall’odore della vodka, mentre due fratelli, Ivan e Alëša, tanto diversi per indole e modo di vivere, cominciano a conoscersi ferendosi a ogni scambio di parole.
E in fondo è proprio questo bisogno di continuare a dirsi malgrado il dolore che dona al racconto altrimenti gelido del dialogo tra Cristo e l’inquisitore tutto il suo movimento interno, tutto il suo inquieto baluginio di lume di candela a un passo dal soffio buio della notte.
Portare questo testo fuori della sua cornice e avverarlo in forma teatrale è impresa improba eppure stranamente frequentata. Tra le infinite possibilità di messa in scena di queste pagine formidabili, due restano comunque le direzioni in qualche modo obbligate.
La prima è quella di prosciugare il testo in cerca di una compressione di gesti e parole nello spazio angusto di un dramma di coscienza che cerca il bianco e i neri di un eterno primo piano.
La seconda è, al contrario, quella di amplificare il canovaccio trasformandolo in un diapason capace di entrare in simpatia dolente con tutto un altro mondo di significazioni e stratificazioni. Come a trovargli, in fondo, un’altra cornice dal momento che il romanzo si è rivelato affresco troppo grande per trovare spazio sul povero tavolato di un teatro.
In questa seconda direzione muove Lello Serao per il suo spettacolo andato in scena in prima assoluta ieri sera. Una direzione rischiosa, se ci si pensa su un momento, che richiede un gesto di regia ampio e capace di sfondare la linearità del dialogo in cerca del punto di fuga che, vertiginoso, lo esalti nell’impressione di una prospettiva che sfida l’orizzonte.
La scelta di Lello Serao è quella di contaminare la purezza eterna della parola di Dostoevskij con frammenti di Brecht, miscelando l’ansia di una Chiesa che «deve mettere l’abito del povero quando deve rivolgersi efficacemente agli umili» con le miserie della Germania del Reich ugualmente affamata di quel consenso che serve a controllare le coscienze.
Una vocazione capace di comprendere anche la contemporaneità, insomma, con una precisa presa di posizione anche polemica con il presente sfuggente che ci circonda.
Sulla scena, quindi, le parole dell’inquisitore trovano in quelle di Brecht una sorta di postilla illustre in un gioco di reciproci rispecchiamenti che è concettualmente inedito e intrigante, ma che in alcuni momenti sembra non riuscire a risultare tanto convincente quanto credibile.
Un crogiuolo di rimandi culturali di questa portata, infatti, per sua natura aspira a una dimensione polifonica, a un gioco di compenetrazione continua tra i molteplici livelli della messa in scena in cui l’importanza dei vari frammenti che contribuiscono all’insieme sia equamente riconosciuta per meglio servire il disegno complessivo.
In alcuni momenti di La leggenda del Grande Inquisitore, invece, sembra quasi che i vari livelli tendano a giustapporsi anziché ad integrarsi portando lo spettacolo a somigliare a un testo fitto di note a piè di pagina e di interventi esplicativi che talvolta sembrano spezzare l’azione più che integrarsi con essa.
Forse un rischio calcolato, dal momento che esso si appoggia consapevolmente sulla linearità geometrica della scenografia che è un po’ griglia ipertestuale e un po’ torre di Babele, un po’ ponte tra realtà drammaturgiche distanti e un po’ luogo fisico, un po’ hic et nunc e un po’ semper.
In questa oscillazione di estremi riposa uno dei grandi meriti di questa messa in scena di Lello Serao che ha l’anima del laboratorio d’attore e il cuore di uno spettacolo grande, capace anche di accollarsi il rischio dell’imperfezione con la consapevolezza che è da lì che un’opera si costruisce per davvero. Nel tempo: rappresentazione dopo rappresentazione.
Il secondo è affidarsi, per il ruolo principale, alla presenza scenica di un interprete di calibro come Paolo Cresta capace di tenere scena con una parte che è un vero tour de force tanto linguistico quanto emotivo (soprattutto nei momenti in cui l’attore incrina la maschera severa del giudice crudele lasciandoci intravedere sotto una dolorosa ansia di vuoto).
Il terzo è poi la capacità della regia di farsi accogliente nei confronti delle proposte attoriali, nella capacità di dare a ogni interprete della vasta commedia umana che fa da sfondo al dialogo tra i due personaggi principali, un momento di autenticità, uno spazio d’espressione vera e densa in un’equilibrata ricerca di armonia tra le diversità di scuola e impostazione degli interpreti.
Un’oscillazione tra estremi che convince meno sul tratteggio della figura del Cristo che appare, piuttosto, indecisa, proprio a livello di regia, tra la possibilità di cedere alla candida sfrontatezza di un personaggio pasoliniano e il bisogno di ritrovare l’angelicità silenziosa e mai rassicurante del personaggio della leggenda originale.
In questo modo (ma qui il discorso si fa soggettivo) proprio il bacio tra Inquisitore e Cristo, che si rispecchia poco più avanti nel romanzo in quello tra Ivan e Alëša, vede in parte ridotta la sua dimensione perturbante e tende a diventare (coerentemente con lo spirito brechtiano, meno con quello dostoevskijano) un gesto di sfida del Cristo verso la sua stessa Chiesa. Di qui il bisogno, per lo spettacolo, di amplificare il messaggio aggiungendo una scena in fondo estranea al modello: quella del crollo del castello e per estensione della Chiesa stessa.
Ci si dimentica così dell’infinita dolcezza del bacio di Alëša che non è giudizio, né condanna, ma dono gratuito e infinito perdono e che ci lascia con il dubbio che il Cristo del romanzo trovi, nel suo bacio così diverso e così lontano, l’Uomo anche nell’orribile, esangue mostruosità dell’Inquisitore.
L’unica cosa, forse, ancora capace di dare un Senso al finale vero della leggenda così delicatamente sotto tono rispetto all’enfasi della chiusa dello spettacolo:
Il vecchio sussulta. Gli angoli delle sue labbra hanno come un tremito; va verso la porta, l’apre e gli dice: «Vattene e non venire più… mai più, mai più!». E lo lascia andare per le oscure vie della città.
1 novembre ore 20:30 – 2 novembre ore 18:00
Teatro Remigio Paone, Formia
produzione Ipab SS. Annunziata, Fondazione Alzaia, Teatri Riuniti del Golfo
LA LEGGENDA DEL GRANDE INQUISITORE
Libero adattamento dall’opera di F. Dostoevskij
con testi tratti dalle opere di Bertolt Brecht
adattamento e regia Lello Serao
con Paolo Cresta (L’Inquisitore)
e con Salvatore Caggiari, Paola Chianese, Agostino D’Angelo, Federica De Luca,
Francesca De Santis, Chiara Di Macco, Enzo Esposito, Dilva Foddai, Giuseppe Maria
Martino, Marco Mastantuono, Stefania Nocca, Agostino Pannone, Elizabeth Stacey,
Giorgio Stammati, Maurizio Stammati, Margherita Vicario
luci Antonio Palmiero
scenografie Carlo De Meo