C’è qualcosa di sacro dentro uno spettacolo come In fondo agli occhi; qualcosa che restituisce al Teatro la sua funzione di catarsi individuale e collettiva; qualcosa che ricongiunge il vissuto dello spettatore al serbatoio senza tempo di quel mito che tanto facilmente tendiamo a non vedere in questi tempi in cui il buio fa di ciascuno di noi un cieco senza guide.
Questo qualcosa non è sulla scena, né nel testo, ma trova la sua ragion d’essere oltre la prima e sotto la griglia di significazioni del secondo.
Non sta nelle parole ora prosaiche ora ritmate del copione, né nelle indicazioni di regia che rendono prezioso ogni momento di spettacolo come stelle sulla trapunta nera di una notte altrimenti senza nord.
Questo qualcosa sta dentro e fuori il corpo degli attori, dentro e fuori i loro gesti, nella loro capacità di attingere al dato autobiografico per parlare d’altro. E sta anche nel gesto di regia che, in equilibrio sul filo nero e invisibile teso tra pubblico e spettacolo, oscilla tra Io e Tutti caricandosi a ogni passo del rischio di cadere.
La grande bellezza di In fondo agli occhi, forse, sta tutta nell’accettare il rischio doloroso di dirsi per dire, di raccontarsi per narrare.
L’utopia dello spettacolo sta nella profonda dimensione di continua messa in gioco senza sicurezze.
È come trovarsi di fronte a un numero di circo fatto senza rete in cui lo spettacolo non è il camminare su una fune con un ombrellino in mano, ma l’ininterrotto stare sospesi sopra il vuoto con l’unica certezza della gravità che ci tira sempre verso terra.
La sua grandezza non sta in quello che dice, ma nel modo in cui lo dice. Suona bello perché non smette mai di essere prima di tutto sincero.
Perché è uno spettacolo che non dice cose, ma ci mette di fronte a un unico limpido exemplum e ci lascia, sull’altra sponda, con l’impiccio di tirare le somme e ricavare le conseguenze.
Gli attori si caricano del peso dello spettacolo, mettendolo sulle loro spalle quasi con l’idea che se non lo fanno loro, nessun altro lo farà. E si mettono di fronte al pubblico come carne da macello, pronti ad accogliere scherno e frustate, reclamando quasi i colpi di quella quotidiana indifferenza che sarebbe cattivo gusto mostrare a teatro.
Così si mostrano, come maschere pirandellianamente nude, davanti ai nostri occhi troppo tristemente abituati al peggio, per dirci ad ogni passo chi sono e, quindi, per contrappasso doloroso, chi siamo e cosa siamo diventati.
Così In fondo agli occhi, tra le risate di un gioco che si vuole stranamente divertente, ha l’anima di una Via crucis che accumula immagini mirabili e michelangiolesche come l’incredibile pianto di sale che fa del tempo della rappresentazione una scultura da scavare nella roccia a colpi di scalpello.
Un vero e proprio Stabat Mater in cui lui si carica dell’ansia di una croce, mentre lei, materna e amante, defilata eppure centrale, vive nello spazio di un’attesa quasi beckettiana che avrebbe forse meritato un po’ più di spazio.
Sicché si ha l’impressione che quel qualcosa che dà Senso alla scena, sia soprattutto la generosità con cui lo spettacolo diventa capace di offrirsi al proprio pubblico quasi in forma di una laica eucarestia, piena di vertigine terrena.
E questo non va in contraddizione con l’impressione che, in fondo, Gianfranco Berardi si diverta a dare corpo al personaggio e che abbia gusto a stare in scena.
Perché mettere in scena una miseria significa, in fondo, superarla a ogni passo e indicare agli altri una possibile via d’uscita.
E perché alla fine quel che conta è che dallo sdegno venga fuori il desiderio di un futuro cambiamento. Perché la rivoluzione, se nasce, può farlo solo ora, dentro ciascuno di noi.
Di questa rivoluzione invocata in ogni gesto lo spettacolo è seme. Sta a noi pubblico farci terreno che sfida paziente la fine dell’inverno.
SENZA SIPARIO
Stagione del teatro d’attore
15 novembre ore 20:30 – 16 novembre ore 18:00
Teatro Remigio Paone, Formia
Compagnia Berardi Casolari di Taranto
IN FONDO AGLI OCCHI
di Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari
regia Cesar Brie