Il malato immaginario, così come lo ha immaginato Ugo Chiti, è prima di tutto un’affascinante riflessione sullo spazio.
Ogni altra considerazione sembra passare in secondo piano rispetto a questo bisogno di modulare l’azione (e i suoi ritmi sempre cangianti) entro i limiti di un palco che a stento assolve ancora la sua funzione di “contenere” e sembra sempre sul punto, piuttosto, di frantumarsi in tante schegge acuminate come lame.
Perché per questo spettacolo quattro pareti, di cui una più o meno invisibile, non sono più una mera condizione di partenza, ma un vero e proprio inciampo, lo sgambetto cui segue la vertigine di un equilibrio di nuovo in cerca di se stesso.
Qui, piuttosto, le pareti si moltiplicano, si accavallano, si sovrappongono come fossero i tratti di un labirinto in cui, a una sola strada possibile, si intersecano tanti vicoli più o meno ciechi e spesso trasparenti. E da quattro ti diventano otto e poi sedici, proprio come quando metti due specchi uno di fronte all’altro e il gioco di riflessi apre nel quadro una prospettiva che davvero sembra prolungarsi all’infinito.
L’azione sbatte in mezzo a questi muri come una falena attratta dalla luce, urtando contro la solidità del Vuoto tutto intorno che è buio e nero come una quinta polverosa che sa farsi tanto spesso infidamente trasparente e capace di alludere a così tanti possibili altrove.
Vertigine appunto, entro cui corrono le maschere di una farsa allegra che volteggia sul Nulla inebriandosi prima di tutto di se stessa e del suo ritmo forsennato. Un gioco che anima il silenzio con sprazzi di linguaggio immaginifico (un Moliere tradotto assai bene tanto per la penna quanto per una scena che conserva addosso un odore di Toscana) che si rincorrono per nascondere una disperata ansia di Non senso. Soprattutto un gioco in cui si sovrappongono le scatole cinesi del teatro nel teatro, ciascuna con un suo palco, un suo orientamento e un suo sipario, quasi a darci gli addendi di una somma impossibile perché il Senso resta sempre fuori da ogni eventuale scena. Un vero e proprio poliedro di cui ogni personaggio è una faccia diversa che porta avanti la sua finzione, animando le sue bugie della luce di quelle degli altri. In questo modo l’intero spettacolo non è altro che vedere questo poliedro girare sul suo asse come una trottola che ha nel solo moto la sua unica ragione.
Il Malato immaginario di Ugo Chiti non parla al mondo d’oggi solo perché mette al centro del discorso un personaggio ansioso di farsi abbindolare dalla semplice immagine delle cose, ma perché è un testo poroso, ricco di prospettive inaspettate che stanno tutte a un passo dall’assurdo della nostra stessa condizione.
Qui Moliere prende a braccetto Becket e Ionesco, senza mai per questo rinunciare a voler restare sempre e semplicemente Moliere e senza mai dimenticare che Argante è, in fondo e allo stesso tempo, l’autoritratto del drammaturgo e il suo monumento funebre.
Per questo solo a lui è concesso per ben due volte il lusso di evadere da questo spazio che è prima di tutto prigione.
La prima volta per mano del drammaturgo, quando, gli è dato di vedere, fingendosi morto, il cadere di ogni finzione. Una libertà inebriante che lo fa, però, in una bella intenzione di regia, una vera e propria maschera nuda che guarda il mondo da un malinconico cantuccio di silenzio da cui è, poi, tanto difficile staccarsi. Qui Moliere quasi ti diventa Pirandello in un momento epifanico di stupefacente suggestione.
La seconda volta per mano del regista, quando, nel più significativo taglio al testo originale, gli è permesso addirittura d’essere fuori di tutto, pura voce eternata nell’archetipo che sfida il Tempo finalmente libera della prigione dello Spazio.
Il Malato immaginario di Ugo Chiti è una macchina scenica dal perfetto funzionamento adamantino. Un gioiello di precisione architettonica che agisce sul testo con la segreta ambizione di amplificarne il portato polifonico.
Per questo ogni elemento contribuisce al risultato complessivo: dallo straordinario lavoro sul colore desaturato (spesso per coppie speculari: rosso e nero per Becchina e l’amante, grigio e bianco per gli innamorati, bianco e nero per il coro), alle musiche che ricordano a ogni passo le origini musicali del lavoro.
Ma l’eccellenza del risultato si deve anche al perfetto lavoro di ensemble degli attori, tutti perfetti, tutti ugualmente necessari.
SENZA SIPARIO
Stagione del teatro d’attore
20 dicembre ore 20:30 – 21 dicembre ore 18:00
Teatro Remigio Paone, Formia
IL MALATO IMMAGINARIO
Regia Ugo Chiti