L’orco del teatro

C’era una volta un bambino che per giocare scendeva in strada.
Un bambino che, se cadeva, si sbucciava le ginocchia e poi si spaventava a vedere il sangue che gli correva giù per le gambe.
Lo stesso bambino che mangiava panini, sulla spiaggia, con le dita sporche di sabbia e che, quando vedeva una pozzanghera, ci si buttava dentro perché gli sembrava di poter così toccare il cielo con un piede.

A quel bambino le favole avevano insegnato che il lupo è pericoloso perché mangia le bambine che giocano nel bosco. E che le streghe fanno paura perché hanno sempre un forno acceso per cuocere quei ragazzi che si lasciano incantare dalle casette costruite in marzapane.

Così, con tanti piccoli spaventi messi come mollichine di pane sul sentiero, quel bambino imparava qualcosa della vita vera e si confrontava con il più grande mistero di tutti: l’altro che ci sta a fianco e che è diverso, che ha un mondo tutto suo e una lingua che è straniera anche quando è la stessa che parla lui.
In questo modo le favole insegnavano a riconoscere un “tu” a bambini che da poco avevano smesso di sentirsi solo “io”. E non facevano mistero che questa scoperta era un trauma dal quale si doveva comunque passare per vivere davvero, in mezzo agli altri. Perché crescere è doloroso. Ma l’alternativa del non crescere lo è forse ancora di più.

Poi, da un certo punto in poi, ci siamo convinti che è meglio parare ogni caduta, limitare ogni piccolo dolore. Così, nel timore che il bambino si sbucci le ginocchia, abbiamo smesso di farlo scendere a giocare. E gli abbiamo impedito di saltare nelle pozzanghere semplicemente sventolandogli davanti il terrore di un raffreddore.
Anche alle favole abbiamo messo i paraurti, rendendo i cattivi meno cattivi e i mostri meno mostri.
Ci siamo così abituati a questa norma politically correct che quando rileggiamo Cappuccetto rosso ci sembra incredibile tanta crudezza in una favola scritta per la buona notte. E fingiamo di non accorgerci che cerchiamo di addomesticare l’infanzia per paure che sono solo nostre.

Ma così abbiamo reso incerto il confine tra “io” e “tu”. Abbiamo cominciato a insegnare ai bambini che l’orco sembra cattivo, ma non lo è, che sembra diverso, ma in fondo è proprio come noi. E per rendere tenace questa omologazione della differenza ci sono venuti incontro telefonini e PC che ingabbiano l’infanzia e ci rendono tutti un “io” che crede di non avere più bisogno del “tu” per capire di esistere.

Così, quando ne L’orco del teatro ci si mette davanti un mostro in catene, la nostra prima reazione è il desiderio di aiutarlo.
In fin dei conti è brutto, ma non troppo e lo sentiamo prigioniero proprio come un bambino davanti a un videogioco.
Il suo essere trattato come un fenomeno da baraccone, da liberare solo al momento dello spettacolo, ci muove a pietà. Ma più di tutto ci convince il suo parlare flautato, il suo dirci ad ogni passo che lui è buono e che i veri mostri sono gli uomini che lo tengono (misero lui!) ai ceppi. La nostra abitudine a pensare che il diverso sia solo un altro “me” che ancora non conosco bene, ci porta subito a cercare le chiavi per liberare il mostro. Non facciamo fatica a credergli anche perché c’è la prova incontrovertibile di un’immagine, una foto di lui che gioca con un coniglio (“sembrano felici”) ad attestare la certezza di una dichiarazione.

Ma l’orco, ci dice lo spettacolo fondato su una drammaturgia di una limpidezza inaspettata, è, e non può essere altro, che un orco. Mangia bambini (ma all’occorrenza vanno bene anche gli adulti, benché un po’ ossuti) perché è una condizione del suo essere. È subdolo e ci inganna perché è altro da noi e non ci accorgiamo che, a volerlo come noi, in realtà, lo uccidiamo.

Il ribaltamento prospettico di L’orco del teatro è copernicano. Lo spettacolo non ci insegna che l’altro è pericoloso e bisogna averne paura (come vorrebbero questi tempi bui di scontro di civiltà), né che per amarlo dobbiamo sforzarci di scoprirlo come noi, ma che per capirlo dobbiamo per un poco mettere i suoi panni. Il diverso non va addomesticato, omologato (e, quindi, violentato), ma va compreso anche e soprattutto quando c’è serio pericolo che ci faccia del male.

Quanta attualità bruciante, soprattutto adesso, in questa metafora pulita e semplice! Togliete l’orco e mettete al suo posto l’Islam e l’oggi è tutto qui.

Con la differenza che mentre ora è tanto facile nascondersi in un “io” in cerca di facili etichette, Marco Renzi e Maurizio Stammati pensano piuttosto che la strada migliore sia quella di indossare noi, per un po’, la maschera del mostro. La risposta alla paura dell’altro, che sorge spontanea nei bambini quando scoprono che l’orco che hanno liberato è pericoloso, non sta nel chiudersi in se stessi, ma nel rivolgersi al diverso riconoscendogli il suo diritto a essere tale.

In questo modo, renderlo inoffensivo è, in realtà, un imprigionarlo per liberarlo. Chiuso nella cassa delle nostre coscienze, quel mostro che per un po’ siamo stati proprio noi, è così libero di essere ovunque. Minaccioso, certo, ma non più spaventoso. E non perché l’abbiamo addomesticato, ma perché abbiamo scoperto una strada per cominciare a capirlo, capendo così un po’ di più noi stessi.

L’orco del Teatro è uno spettacolo incredibilmente godibile. Un meccanismo scenico estremamente calibrato nella sua capacità di muovere l’azione in modo sempre cangiante e imprevedibile. Una commedia che cattura l’attenzione dei bambini senza segni di cedimento. Un inno alla libera fantasia cui giova la bravura di tutti gli interpreti: da Oberdan Cesanelli abile nell’arpeggiare in tutti i registri del fiabesco impostigli dal ruolo di orco, a Jacopo Orsolini che riempie i suoi spazi di un incredibile spirito cartoonistico perfetto per i più piccini, sino a Lorenzo Palmieri simpaticamente istrione nel prefinale.


FAMIGLIE A TEATRO
Stagione di teatro per ragazzi
11 gennaio 2015, ore 17:00
Teatro Remigio Paone, Formia

Compagnia Teatri comunicanti di Fermo
L’ORCO DEL TEATRO
testo Marco Renzi
con Oberdan Cesanelli, Jacopo Orsolini e Lorenzo Palmieri

musiche originali Enrico Biciocchi
disegno scene, maschere e costumi Corrado Virgili
realizzazione costumi Michela Sco
soluzioni tecniche Federico Mancini
organizzazione generale Lucia Frontoni e Francesca Cerretani

Regia Maurizio Stammati

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