Non cerca le facili scorciatoie Alice Ricciardi. Non ragiona per melodie di facile presa né si concede le scorciatoie di quei ritmi accattivanti che ti strappano l’applauso perché ti hanno tenuto tutto il tempo a battere il piede a tempo con la musica.
Del resto per una che cerca in musica le poesie di Emily Dickinson o di E. E. Cummings l’arco melodico squadrato e facile a ricordarsi deve davvero essere l’ultima delle preoccupazioni.
E, in fondo, ieri sera, nella suggestiva cornice del Molo Sanità, complice una luna che illuminava più e meglio delle luci di palco, l’ha detto chiaro, anche se in verità parlava di Billie Holiday: “Quel che conta è l’incontro perfetto tra le ragioni del testo e quelle della musica”.
Optics, pubblicato per Inner Circle Music- USA appena sul finire dello scorso anno e ieri riproposto in concerto, sembra nascere e forgiarsi nel bisogno di una continua ricerca di questo possibile e utopico connubio perfetto tra parole e musica.
È un album che scava tra i rivoli di genere in cerca di una sua posizione senza lasciarsi indietro nulla. Tira in ballo sonorità blues, classici intramontabili (finemente riarrangiati giusto quel tanto che basta per dargli un sound più contemporaneo), inaspettate atmosfere quasi southern e brani originali senza apparire mai, neanche per un momento, indeciso su quale direzione prendere. Delle tante direzioni possibili sceglie, infatti, sempre e comunque la sua. Ed è la direzione di un incedere squisitamente introspettivo, fondato su una voce calda e morbida, capace di evitare il facile ricatto del patetico (che tanto piace agli italiani) come pure l’esplosione virtuosistica.
Tanto nel canto, quanto nelle composizioni, quanto, infine, nella scelta dei brani non originali, brilla l’evidenza di una tecnica perennemente al servizio dell’espressione. Il che rende straordinariamente caldi anche i passaggi musicalmente più complessi in un perfetto equilibrio tra le ragioni di un matematico senso di struttura e l’effusione di un sentimento mai spudorato, ma sempre contenuto nell’eleganza del velluto.
Il risultato è una silloge di brani estremamente eterogenea per stili e modi di espressione che sfida (soprattutto nei brani originali) i limiti del genere senza mai cadere nel semplicismo delle contaminazioni fini a se stesse. Lo si potrebbe dire uno scrigno di continue sorprese, di svolte inaspettate che ammalia e seduce senza smettere di mantenere la propria identità.
Un risultato per certi aspetti coraggioso che ha dalla sua la tenuta di un ensemble straordinariamente compatto e capace di garantire un giusto equilibrio tra le parti. Così se Pietro Lussu si carica del peso delle parti pianistiche più raffinate in cui spiccano alcune arditezze armoniche assai colte (e del resto Copland è uno dei riferimenti dell’album), Enrico Bracco riempie la sua chitarra di un virtuosismo contratto e limpido, stretto e sempre lucidamente pensato.
Non da meno sono Marco Valeri alla batteria e l’ottimo Luca Fattorini a un contrabbasso particolarmente brillante e di spessore.