È proprio vero: il primo verso ti aspetta e chiede, pronto a darti voce.
Ma
– e qui è l’incaglio –
c’è un poi.
E quel poi è fatica e lavoro. È un incamminarsi per perdersi. È un vagabondare che spesso contraddice quello stesso primo passo che, come una sirena, ci aveva messo in mare con quella barca che sapevamo fin dall’inizio piccioletta.
Quante volte arrivati a una fine che non è mai una conclusione, dobbiamo tornare indietro e cancellare proprio quel primo giro di parole, quel primo gocciolio di una fontana malata che ci aveva svegliati in piena notte facendoci inquieti? Quante volte gli uccellini sono arrivati giusto in tempo per mangiare le prime mollichine di pane che non avevamo voluto mangiare nonostante la fame e l’impressione di deserto intorno a noi?
Le parole che restano alla fine sulla pagina sono solo segni d’orientamento, punti cardinali che hanno un loro senso in se stessi, ma indicano infinite strade. Sono un centro che si allarga prospetticamente per tutto il giro d’orizzonte. Sono il punto di incontro tra acqua e sasso quando l’impatto disegna cerchi e onde mentre sotto, imperturbabile, resta il buio del fondale.
Difficile, allora, cercare la propria immagine riflessa in questo specchio d’acqua increspato da parole che, nel loro dire troppo e troppo poco, rendono di vetro ogni nostro sguardo. Difficile cercarci tra i frantumi dei vetri rotti dei nostri incontri, quando rincorriamo noi stessi negli occhi degli altri (che è sempre anche un rincorrere un po’ di ieri nel domani).
Perché è vero che ci vogliamo soli, ma lo facciamo per abitare case di cristallo: strana esigenza di solitudine pubblica in cui lo sguardo degli altri è solo la seconda parte di una gabbia a doppi vetri in cui noi per primi abbiamo voluto nasconderci per rivelarci.
E, se accettiamo questo, dobbiamo poi accettare anche il fatto che cerchiamo i più diserti campi solo per inseguire con gli occhi le orme sulla sabbia di chi ci ha camminato accanto e così ragionar d’amore, alla faccia di quella solitudine che è solo un’altra maschera a coprire lo sforzo di tenersi addosso il pesante fardello della nostra coscienza.
In questo modo però l’espressione della nostra fatica diventa un ghigno di clown. E chissà se è proprio questa la faccia che soddisfa, quella che abbiamo trovato nello specchio degli occhi dell’altro che hanno un po’ del fondo degli occhi di un tu bambino. Ed è sempre un rincorrere un po’ di ieri nel domani. È sempre un riconoscersi figli facendosi un po’ padri.
In fin dei conti davvero noi giochiamo solo a fare i clown, ma sotto il gioco c’è ciò che non siamo e ciò che non vogliamo. O forse è proprio il gioco l’ultimo baluardo che ci protegge dalla paura che la fantasia si spenga, dal timore che qualcuno chiami l’idraulico a riparare la fontana che perde. Rischiando, con questo, di smettere di perderci.
E allora ben venga il coraggio dell’incoscienza. Ben venga il rischio del metterci A repentaglio. Ben venga il riconoscersi diversi, non secondo i dettami della moda, ma come faceva Pasolini che si mostrava agli altri per farsi specchio dell’altrui diversità. Non compiaciuti, ma sofferenti.
E ben venga quest’ultimo, intrigante libro di Giuseppe Napolitano che come sempre e più di sempre è una raccolta di cocci di vetro che feriscono e riflettono e ci mettono di fronte alla semplice considerazione che la vita è quella che abbiamo , anche se non sempre riusciamo a farcene una ragione. E perché in fondo farcene una se poi quella che cerchiamo alla fine è solo quella che vorremmo noi?
Cocci di specchio nel quale – e il poeta lo sa bene – riusciamo a scorgere qualche pezzetto di noi stessi che ci taglia le dita e al tempo stesso disinfetta. E sta qui il motivo della nostra gratitudine.
Autore: Giuseppe Napolitano
Titolo: A repentaglio
Editore: L’arcolaio
Dati: 88 pp, brossura
Anno: 2015
Prezzo: 11,00 €
Isbn: 978-88-95928-99-9