Ieri a pranzo, sono stato in un ristorante cinese di Roma. Avevo troppa fame per un panino al volo, come capita in quei giorni alle porte dell’inverno che non sono ancora freddo, ma già invitano a starsene raccanucciati al chiuso.
Ho preso posto in un tavolo non troppo lontano dalla porta all’interno di un locale che si sviluppava in lunghezza, come un vasto camerone che somiglia a un corridoio, stranamente troppo alto. Intorno a me, senza che quasi me ne accorgessi, si è composta un po’ alla volta una realtà strana e stranamente colorata. Al tavolo al mio fianco, sulla sinistra, ha preso posto una coppietta. Sembravano sposati da una decina di anni almeno: lei più compita eppure pratica nei modi, lui alla mano, spiccio, a suo modo semplice. Davanti a me c’erano invece due ragazze di chiare origini orientali, mentre più avanti, un ragazzo di colore già mangiava da un piatto una porzione di riso, le spalle curve, lo sguardo fisso nel vuoto. Mentre aspettavo l’ordine sono arrivati anche degli studenti universitari, che hanno preferito star fuori nonostante non fosse una giornata di sole e il locale, che dà dritto sulla strada, non offra una vista piacevole. Le loro chiacchiere allegre e le continue richieste di nuovi piatti puliti ci hanno fatto compagnia per tutto il pranzo. Poi due signore, credo nord africane, che mangiavano e parlavano fitto con i toni pratici di chi sembra in pausa dal lavoro. A un certo punto è arrivata anche una donna che sembrava quasi una gattara di quartiere.
In breve, insieme con i profumi di una cucina che devo ammettere ottima non era, il locale si è riempito dei colori di parlate diverse che si mescolavano in un’armonia rilassata, pulita in cui, ci giurerei, anche le spalle del ragazzo di colore perso nei problemi suoi, si sono un poco raddrizzate e sembrava dovessero sostenere un peso fattosi pian piano un poco meno grave.
C’era spazio persino per qualche breve litigio e qualche incomprensione, qualche voce che si alzava troppo e poi tornava giù, con semplicità.
Babele deve essere stata un incubo solo perché ci si sforzava di capire parole e non ci si arrendeva alla musica che semplicemente è e ci dice. Perché anche il ragazzo di colore, ieri, in fondo, parlava, anche se muoveva la bocca solo per masticare il suo riso che di suo era se non altro fumante e speziato.
A servirci poi c’era un cameriere che era tutto un sorriso caldo. Appoggiava ogni piatto come chiedesse scusa, con una gentilezza tutta particolare. E ti guardava dritto negli occhi, come a dirti “io ci sono”. Dai lineamenti più che cinese l’avrei detto marocchino e mi ha sorpreso un classico pensiero di questi giorni: Chissà di che religione è? Eppure più che aspettare una risposta a una domanda di cui in fondo poco mi importava, piuttosto l’avrei abbracciato per quel suo sollecito servire che non era servile. Perché la gentilezza avvicina sempre e non ha mai bisogno di parole.
Mangiando, ricordo, pensavo: Ecco! Qui L’ISIS non ha vinto! Dove in una stanza possono stare insieme persone così diverse per cultura, provenienza, religioni e chissà, forse anche gusti sessuali e il peggio che può capitare è che il proprietario sgridi il cuoco in cucina o che la moglie metta il broncio con il marito o che il ragazzo di colore tiri via un sospiro che ha il sapore di un’ingiustizia subita, ecco: qui l’ISIS non ha vinto.
Poi mi cade l’occhio su Facebook, scorro, sul cellulare, un paio di commenti appena usciti di persone che magari stimo e cui voglio bene e per un attimo la torre di Babele che ho davanti in tutta la sua aerea bellezza vacilla.
Vedete: da che, per scommessa strana, ho cominciato a scrivere teatro, ho scoperto, senza neanche accorgermene troppo, l’importanza delle voci. Non si può scrivere per la scena, sia pure al livello modesto come il mio, se non si accetta di dare la voce a tutti, anche ai personaggi più sgradevoli, più meschini e più orribili. Sulla scena Anna, l’orrida protagonista de I topi nel muro, non può starsene muta o parlare a slogan. Nella vita ha fatto quel che ha fatto e se lo porta addosso, come un cappotto troppo liso. Lidia ha le sue ragioni, non le condivido, ma sono le sue e le devo ascoltare, per quanto doloroso sia, perché mi obbligano, a ogni passo, a capire, che proprio io non sono il centro del mondo.
E il dramma de I topi nel muro è che i personaggi parlino, ma avendo smesso di ascoltarsi.
Ed è esattamente questa l’impressione che ho leggendo i post di Facebook dopo i fatti di Parigi. Persone che parlano senza ascoltarsi.
Il problema non è tanto la pretesa di aver ragione, né il fatto che ognuno si senta esperto di politica internazionale o abbia qualcosa da dire sul dolore delle vittime, ma il fatto che la paura faccia cessare – e del tutto – non solo ogni capacità, ma anche il desiderio di ascoltarci.
E così si moltiplicano piccoli post allusivi, piccole colate di acido che sanciscono tante piccole lese maestà e tanti, troppi, post dolenti che rivelano in ogni modo e qualsiasi sia il loro contenuto e la presa di posizione (guerra all’Islam, bandiera sul profilo, peso specifico della morte, Fallaci profetessa, financo, di nuovo, i crocefissi nelle scuole) un senso di sgomento e di paura che merita rispetto indipendentemente dalle conclusioni cui si giunge.
Quel che manca, in tante sfumature di grigio intermedio, sembra essere alla fine solo la capacità di fermare le dita in corsa sulla tastiera e lasciare agli occhi il tempo di riempirsi delle parole degli altri. Forse per l’implicita paura che, nella breve pausa, essi possano riempirsi anche delle lacrime che ci vergogniamo di piangere.
Ma forse, nel chiudere ogni possibilità di ascolto anche con l’amico in chat, nel togliere l’amicizia a chi ha l’ardire di avere un pensiero leggermente diverso dal mio, nel troncare ogni possibilità di dibattito, forse, senza accorgercene e indipendentemente dalla nostra posizione in merito al tema del terrorismo internazionale, diventiamo ideologicamente simili a quel nemico che diciamo di voler combattere, ugualmente chiusi nella roccaforte di certezze incrollabili.
Io credo seriamente e fortemente che la civiltà la si misuri prima di tutto nella capacità di ascoltare l’altro. Un passo prima dell’accoglienza, della tolleranza o del possibile rifiuto. Se si smette di avere la pazienza e la dolcezza di ascoltare l’altro senza volerlo convertire, ma solleciti alla possibilità che il suo punto di vista apra squarci nuovi anche nel mio, si entra in una spirale di muri con in cima solo sassi aguzzi di bottiglia. E non parlo qui dell’occidente che deve ascoltare il sedicente nemico, di una cultura che deve ascoltare l’altra (che già sarebbero se non altro un passo successivo), ma di ascoltare il compagno di scuola con cui sono cresciuto, lo zio che fino a ieri non sembrava avere opinioni politiche o quel ragazzo che conosco che scopro solo su Facebook (quale affronto!) essere musulmano.
In fin dei conti proprio il teatro che frequento così tanto l’aveva già detto ormai millenni fa che la civiltà non nasce nella furia delle Erinni che così somiglia al recente cicaleccio dei social, ma nel finale trionfo, forte e numinoso, delle Eumenidi.