Ciò che colpisce profondamente in un film di De Oliveira è l’incredibile profondità dello sguardo della macchina da presa. Le inquadrature lunghissime che impongono allo spettatore un tempo di lettura dell’immagine ai limiti del sostenibile, l’uso costante di piani fissi, i movimenti di macchina sempre giustificati dai movimenti che hanno luogo nel profilmico e mai usati a fini puramente emozionali, il distacco sacrale con cui le cose vengono osservate, sono tutti elementi che danno al film quell’inconfondibile tono freddo e straniato eppure suggestivo e metafisico che rende unico lo stile del regista portoghese.
Anche i suoni, i silenzi, la musica vengono impaginati seguendo questa visione particolarissima del mondo. Una visione sempre profondamente consapevole di se stessa e del suo carattere illusorio. In un film di de Oliveira, infatti, il cinema si denuncia sempre come fabbrica di miti, di immagini, in una parola di finzione, ma è proprio attraverso questa autodenuncia che l’autore aspira al raggiungimento di una verità più profonda.
In questo quadro solo la parola, di colpo dotata di un arcano potere incantatorio, si pone nei confronti del mondo in una dimensione assolutamente “altra”. Posta a contatto con il materiale visivo, essa ne diviene l’anima segreta, rivelando, al di là delle apparenze, profondità filosofiche inaspettate. E sono spesso parole di poeti e romanzieri al centro delle investigazioni del regista portoghese. Autore molto attratto dalla letteratura e uomo di finissima cultura, de Oliveira vede inizialmente nel testo letterario semplicemente un ulteriore realtà da contemplare. I film tratti da opere preesistenti sono allora contemplazioni di una contemplazione, sguardi lanciati su altri sguardi. Applicando, in un certo senso, le istanze oggettive del documentario ai film di finzione, il nostro regista si pone nei confronti della letteratura in una posizione particolarissima di profonda originalità.
In Acto de primavera, ad esempio, il testo di Francisco Vaz de Guimeraes (testo della rappresentazione del Mistero della Passione risalente al XVI secolo) diviene oggetto di uno sguardo sulla condizione dei contadini attori che lo mettono in scena, l’occasione ad un discorso che va ben oltre la mera narrazione. La messa in scena, allora, oggetto della visione, è, al tempo stesso, soggetto del discorso, mentre la parole del testo, pur provenendo da un remoto passato, illuminano, con insospettate corrispondenze, la condizione dell’uomo contemporaneo in un discorso al tempo stesso politico ed esistenziale.
Anche La scarpetta di raso, dal dramma di Claudel è un’ulteriore conferma di questo atteggiamento distaccato e partecipe nei confronti del testo di partenza, in un’apparente fedeltà alla pagina scritta in cui è sempre evidente l’intenzione di parlare, comunque, di altro. In una sorta di film fluviale (della durata complessiva di quasi sette ore) il discorso del regista ha agio di dilatarsi in una dimensione sempre più metafisica e profonda ben al di là delle intenzioni dello stesso Claudel, di cui vengono comunque rispettati lo spirito e le intenzioni.
Il testo di partenza, allora, è per de Oliveira una sorta di (pre)testo per il proprio discorso filmico, ma non è mai (come purtroppo in molti registi) un mero pretesto.