Come sempre, quando si ha a che fare con la buona narrazione, il cuore della storia è nel sentimento che la muove e non nella tecnologia usata per veicolarla. E come sempre le conquiste del linguaggio si ottengono nella linearità delle basi più che nelle evoluzioni barocche delle ricerche.
Life in text, in fondo, non è che un’ultima esplorazione delle possibilità offerte dalla più elementare delle dinamiche del montaggio cinematografico: la limpida successione di un campo e del corrispondente controcampo.
Da che il cinema è nato, da che ha mosso i primi passi per farsi poesia, non si è andati molto oltre questa semplice dinamica di opposizioni che lega misteriosamente un’inquadratura all’altra. Potete metterci tutti gli effetti speciali di Avatar e tutto il turbinio del miglior 3D, la sostanza non cambia, né può cambiare: il film è sempre la storia di qualcuno che guarda e la sua poesia la possiamo misurare nella quantità di senso con cui riusciamo a riempire questo semplice atto del vedere.
Ci aveva giocato Kuleshov mettendo insieme il primo piano di una persona che guarda e un oggetto guardato, sognato, pensato. Il gioco di Kuleshov era innervato di ironia, ma metteva la lingua su un dente dolente: quando guardiamo (o ricordiamo) qualcosa dobbiamo per forza interpretarla, riempirla di un significato.
Life in text racconta la storia di un ragazzo. Un giovane sensibile, più sguardo che azione, più pensiero che parola, più sentimento che ormoni. La sua storia è finita da poco. Se ne starebbe volentieri a casa, da solo, anche se gli amici lo chiamano per farlo uscire, per distoglierlo dal calduccio scomodo del suo dolore. Solo nell’appartamento, che divide con un pesce chiuso in un acquario, prende in mano il cellulare e quasi quasi si metterebbe a chattare con la sua ex, ma è indeciso, non cerca altro dolore. Un raccordo semplice lega i suoi occhi che leggono allo schermo del telefonino.
Il corto è tutto qui. Un ragazzo guarda ed un oggetto è guardato. Il suo bisogno di capire ciò che guarda e il nostro bisogno di capire lui che guarda alzano la temperatura della poesia in un’idea semplice semplice. La tecnologia del green screen è solo l’artificio che proietta il personaggio nello schermo del telefonino e il giovane, ben presto, si trova a passeggiare tra i post della chat e tra i video postati in conversazione che basta saltarci dentro per renderli un presente da contemplare col senno del poi.
In questo modo la dinamica del campo controcampo si evolve in un carrello che è, però, movimento illusorio dal momento che non c’è cambio di sostanza tra guardare e camminare. L’incanto dell’effetto speciale trasforma, così, un attore che corre sul posto, senza muoversi, in un personaggio che cammina nel ricordo rimanendo prigioniero della sua solitudine come il pesce nell’acquario in cerca di ossigeno. Tanto l’attore quanto il personaggio sono, quindi, fermi è il cinema che, in onore alle radici del suo stesso nome, dona loro un’impressione di movimento. L’ambiente digitale nel quale ormai viviamo senza rendercene conto diventa, per questo, un vero e proprio habitat chiuso, una gabbia nella quale mettiamo in esposizione prima di tutto noi stessi. È un luogo che ci lascia l’impressione di un’apertura indefinita all’altro e al mondo anche quando la linea tratteggiata dell’inizio di una chat assume le fattezze delle sbarre di una gabbia. Ma nel corto siamo prigionieri del nostro passato molto più di quanto possiamo essere prigionieri dell’ambiente tecnologico che ci siamo creati. Infatti lo stesso telefonino può essere utilizzato anche per prendere un appuntamento con gli amici e uscire fuori in cerca di contatti più veri. Per estensione si può, quindi, arrivare a leggere il finale del corto come un invito rivolto al cinema stesso a non lasciarsi chiudere nella gabbia della sperimentazione tecnologica fine a se stessa per andare, fuori, in cerca di Realtà, di Emozioni e di Storie. È raro che una premessa teorica sia applicata così tenacemente bene.
I registi, Laurence & Jessica Jacobs (fratello e sorella), assecondano la semplice linearità della premessa consapevoli di affidarsi, come Kuleshov, all’accostamento di due immagini per donare Senso ad uno sguardo ancora innamorato. Nel far questo scoprono con sorpresa di come sia il passato la strada senza uscita e di come sia l’inizio ad essere la vera fine di una storia perché oltre può esserci solo futuro e quindi speranza di un domani meno vuoto.
Insomma Life in text ci pare davvero un buon punto di incontro tra estetica e linguaggio, tra bisogno di dire e di capirsi.
Tweeting: Oltre la tecnologia, i sentimenti. Un bell’esperimento.
Where to: Su Vimeo: https://vimeo.com/78705082. Qui per accedere alla Pagina Facebook
(Life in text); Regia: Laurence & Jessica Jacobs; sceneggiatura: Laurence & Jessica Jacobs; fotografia: Nico Navia; montaggio: Laurence Jacobs; musica: Blake Collins, Julian Javor; interpreti: Tyler Ritter, Alexandra Daddario; effetti visivi: Jason Rico; sound design: Anne Tolkkinnen; produzione: Laurence & Jessica Jacobs, Catherine Wolf; origine: USA, 2013; durata: 11’