La notizia di ieri della morte di Alain Resnais si confonde fatalmente con quella di oggi dell’assegnazione degli Oscar.
In Italia la dissolvenza incrociata tra lutto e festa è resa ancor più morbida dal fatto che Resnais è un nome noto quasi solo agli studenti di cinema, ai frequentatori di Festival e ai pochi appassionati del cinema francese, mentre l’idea che l’Oscar per il Miglior film straniero sia tornato dopo quindici anni all’Italia è passata anche ai bambini di scuola primaria.
Dal quasi vuoto all’esageratamente pieno, quindi, in un coesistere di opposti che, ne siamo certi, avrebbe fatto sorridere il maestro francese.
Ci avrebbe, anzi, girato sopra una sequenza delle sue su questo necrologio proprio sotto ai titoloni dei giornali. Una di quelle scene che sapeva sognare con la consumata leggerezza di chi la vita ha imparato a guardarla dalla giusta distanza. Partecipando senza partecipare. Con lo stesso sorriso a posarsi tanto sul dolore quanto sulla gioia perché il cuore umano è un muscolo così elastico che tendiamo a dimenticare che esso è anche involontario.
Nel corso degli anni l’opera di Alain Resnais ha battuto inesorabile e gentile a questo ritmo strano del cuore. È stata elastica perché ha sfiorato tutti i modi possibili di fare cinema riuscendo a non rimanere prigioniera di nessuno. Ed è stata involontaria perché così è sempre quando si ha a che fare con la poesia. Non la comandi. Nella migliore delle ipotesi le prepari la stanza, le apri la porta e poi aspetti che sia lei ad entrare.
In queste stanze che sono i suoi film, in verità, la poesia c’è entrata quasi sempre. Sia che si fosse nello spazio astratto dei primi corti dedicati alla pittura, sia che si arrivasse alla poesia dolente di capolavori sul morire della memoria come Hiroshima mon amour. Sia che si facesse politica come ai tempi del Vietnam e di Stavisky, sia che si cantassero i capricci del caso come in Smoking e No Smoking.
Titoli così diversi tra loro che ti stupisci che abbiano la stessa firma. Eppure opere così tra loro somiglianti che ti stupisci che non abbiano lo stesso titolo.
La verità è che Resnais è stato un così grande poeta della memoria da capire, fin da subito come essa fosse della stessa sostanza del dimenticare. E in questa confusione tra ricordo e vuoto ha costruito una casa che era come un rifugio invernale al rigido bianco dell’inverno.
Della Memoria ha fatto un dovere civile consegnando agli annali del cinema il più bel film sui campi di concentramento, quando ancora non si sapeva per davvero come a un passo ci fossero stati anche i campi di sterminio (Nuit et Bruillard) e dell’Oblio ha fatto una cattedrale con quello che resta forse il suo film più bello (Providence).
Di suo aveva capito quanto fosse fatale, per l’animo umano, dimenticare e questa cosa gli aveva insegnato l’indulgenza dei saggi che guardano i fatti della vita senza giudicare. Accettandoli, appunto, con quel sorriso di chi sa che vero e falso sono categorie prive di senso dato che si appoggiano sulla più aleatoria delle fondamenta: la percezione.
Per questo non è mai stato un narratore, ma uno che osservava il narrare nel suo farsi. Spesso nell’attesa dell’errore che metta in discussione l’atto stesso del dire storie, denunciandolo per quello che è, il ripetersi di una convenzione sociale. E per questo tanto spesso il narratore l’aveva fatto diventare oggetto stesso del narrato, personaggio tra i personaggi. Più vittima che autore.
Era stato al cinema una specie di Proust che si lasciava trascinare dal vento del ricordo troppo mescolato col presente. E in questo gioco di dissolvenza tra ieri e oggi quasi non ci si accorge di quanto Proust respira ancora ne La grande bellezza, intangibile capolavoro italiano tutto intessuto nel tempo di un ritorno.
Di questo soprattutto avrebbe sorriso Resnais. Di vedere quanto del suo ieri c’è nel nostro oggi.
E avrebbe sorriso anche al pensiero di come lui che ha raccontato la morte per tutta la sua vita, lasci alla fine alla sua morte l’onore di cantarci on connaît la chanson della sua vita.