Christopher Lee non è stato un attore.
Piuttosto, da un certo punto in poi della sua mirabolante carriera, è stato un segno impresso a fuoco sulle vecchie pizze dei lungometraggi. Oppure un taglio, come quelli di Fontana, che aprivano nei film uno squarcio verso un oltre oscuro e poco conosciuto. Una specie di graffio – forse – che rivelava, durante la proiezione, la concreta evidenza della pellicola, la presenza del mezzo e l’azione dolorosa ed eterna della polvere che tutto sgretola.
Come un graffio inciso sulla pellicola è sempre stato qualcosa d’altro rispetto al film, pur rimanendo parte integrante dell’esperienza della proiezione. Dentro e fuori la narrazione, personaggio e attore, figura e uomo confusi in un groviglio sublime di contraddizioni.
Quando appariva sullo schermo non era da subito Saruman o il conte Dooku, né il borgomastro di Sleepy Hollow o un ennesimo Sherlock Holmes, ma era più semplicemente una leggenda che signorilmente si concedeva al film.
Il personaggio arrivava piuttosto in un secondo tempo, qualche inquadratura dopo, ed era spesso reso con appena qualche traccia di china, come l’esercizio calligrafico di un monaco zen.
Proprio come il graffio sulla pellicola, lui era qualcosa del nostro mondo che si frapponeva tra noi e il sogno della storia raccontata, era un segno del tempo passato, una ruga sul volto sempre fresco del cinema.
Succede a quelle persone che da un certo momento in poi diventano pezzi di Storia senza per questo caricarsi della muffa dei musei!
I registi che l’hanno chiamato sullo schermo negli ultimi anni della sua commovente carriera – spesso cinefili prima che autori – lo chiamavano perché lo sentivano, in fondo, compagno di un viaggio cominciato ben prima del loro timido mettersi in cammino.
Lo cercavano perché potesse, con la sua sola presenza, illuminare di luce antica gli orizzonti nuovi dei loro sguardi freschi.
E lui acconsentiva come un padre che cede al bisogno forte di un figlio di riconoscere le proprie radici. Ma accettava anche perché si divertiva un mondo a stare davanti alla macchina da presa, perché poteva caricarsi le spalle di gioco senza perdere un grammo della signorilità che l’aveva sempre contraddistinto. Perché le leggende restano leggende anche se si concedono il sorriso dei bambini.
Nel corso della sua carriera ha attraversato il cinema col passo felpato e ferino degli animali da preda. Il controcampo lo sorprendeva il più delle volte con lo sguardo freddo del giocatore di scacchi e gli occhi iniettati di sangue e desiderio. Alto, allampanato e nero riusciva ad essere animalesco e sensuale, ma con i modi perfetti e calibrati del lord. Per questo fu un Dracula perfetto e per questo non perdonò mai la barocca ridda di colori e rosso del film di Coppola che spogliava il conte più famoso della letteratura di ogni retaggio nobiliare.
Con Peter Cushing è stato un dioscuro della notte. Dei castelli cupi della Hammer è stato un muro, una colonna portante e forse anche la stanza principale con il camino acceso del fuoco freddo dei presagi. Anche per questo il tradimento più feroce alla pagina di Tolkien è stato farlo morire impalato ad una ruota di mulino quasi fosse mezzo Frankenstein e mezzo vampiro.
Ma non è stato solo horror, anche se nel corso della sua carriera ha prestato spesso voce e qualche volta anche corpo alla Morte stessa. Spesso si è prestato alla commedia, qualche volta ha vestito i panni del nonno e come Labisse regalava libri ai bambini, soprattutto quando si chiamavano Hugo Cabret e cercavano la magia delle origini del cinema. È stato scheggia di bellissimi film per l’infanzia e voce per quelle opere che avevano bisogno di narratori profondi e cupi. Non ha mai storto il naso alla televisione ed è stato ovunque si respirasse odore di cult. In Spazio 1999, addirittura, era un signore maestro dell’arte dell’ibernazione, quello stato in cui il sonno è come morte.
Si è spento domenica scorsa, ma la notizia arriva solo oggi. Ci lascia un po’ più soli e un po’ più tristi in questi tempi bui che hanno fatto dell’horror lo sguardo quotidiano. Ma con almeno la speranza che la sua ombra, che si proietta nel ricordo, sia un po’ più nera di tutta questa notte.