Forse in nessun’altra serie televisiva si fa così evidente il disperato braccio di ferro tra le esigenze della serialità e quella di un percorso eroico chiuso e compiuto come in The Walking dead.
Se da una parte, infatti, il concetto stesso di sopravvivenza tra le macerie costituisce un’inesauribile miniera di situazioni e personaggi volti al rinnovo costante della formula, dall’altro lato la dimensione apocalittica dello sfondo obbliga i personaggi a confrontarsi con dilemmi assoluti che, una volta risolti, non dovrebbero essere rimessi in discussione.
Di fronte all’orrore dello sfacelo culturale e morale della civiltà post contagio due sono, in fondo, le strade possibili: abbracciare la degenerazione, facendo dell’orrore un nuovo quotidiano (e allora la narrazione procede fino a che ha vita l’eroe anche se diventa – ci si perdoni il gioco – priva di “mordente” perché ogni motivazione si esaurisce al semplice sopravvivere) oppure opporsi ad essa cercando di stabilire le basi di un nuovo consesso sociale (e allora la narrazione cerca una chiusa ideale, sia pure quella di un finale aperto in cui una scelta viene compiuta e ha poco senso continuare a raccontarne le conseguenze).
L’orgia zombie nata dai fumetti di Robert Kikman si pone a metà tra le due rive, sempre in pericolosa oscillazione tra i due poli del racconto in una indecisione tutta televisiva tra bisogno dello sfruttamento di un successo più o meno garantito e una narrazione così vicina a dilemmi assoluti che aspira alla chiusura di ogni conto e alla catarsi di una presa di possesso di un destino scritto per noi dall’assenza di ogni dio.
Nel suo raccontare la sopravvivenza tra le macerie di una civiltà, The walking dead pone l’eroe nel solco del tormentoso dilemma etico che separa l’uomo dalle bestie. Come in una tragedia greca, i personaggi sono dibattuti tra la nostalgia del mondo di una volta con i suoi valori riconoscibili, con gli ideali di fratellanza, uguaglianza e libertà individuale e l’ansia di perdersi nell’horror vacui dell’homo homini lupi. A ogni passo, a ogni colpo di fucile esploso, a ogni incrocio, l’eroe di The walking dead si trova di fronte al dilemma esistenziale di definire la propria natura: angelo o mostro? Giudice o giudicato? Vivo o morto?
Per quanto ci si giri intorno, l’universo di The walking dead è semplicemente questo. Un universo di bianchi e neri tanto precisi quanto asfissianti. Da parte sua l’umanità (o quel che ne resta) è solo quel grigio stinto che ci si dibatte dentro. Tendente naturalmente un po’ più verso il nero della notte visto che il bianco è possibile debolezza di cui altri sapranno approfittare. E sopravvivere a lungo significa farsi sempre più neri, sporcarsi sempre più le mani con il carbone dei roghi in cui a bruciare non sono solo zombie, ma anche altri vivi che abbiamo scambiato per minacce.
Questa cupio dissolvi che aveva retto bene per le prime due stagioni e che, nel finale della seconda, si era incupito di presentimenti shakespeariani ponendo l’eroe assoluto della vicenda (Rick) sulla strada di una tirannide ambigua e politicamente inquietante cede però il passo a esigenze intrinseche al medium televisivo utilizzato. Come McLuhan (con buona pace di Woody Allen) ha efficacemente dimostrato, la televisione è, infatti, tra tutti i media, quello forse più rassicurante. Il messaggio veicolato attraverso la televisione difficilmente riesce ad essere problematizzato oltre una certa soglia perché lo spettatore ha bisogno di solide certezze e di vedere riconfermati i valori della cultura dominante. Se l’eroe nel quale si immedesima è un padre che affronta l’inferno per ritrovare il figlio (e la moglie) onde ricostruire il sacro vincolo familiare che corre il rischio di essere spezzato dall’apocalisse, quell’eroe può sì subire la vertigine della tentazione, ma non può perdere per troppo tempo la bussola del suo agire. Se diventa capo di un gruppo di persone di più o meno buona volontà, non può assolvere la sua funzione solo sulla base della forza, ma deve essere accettato da tutti (ivi compresi gli spettatori) per la sua capacità di giudizio e per le linee direttive di un’etica che vacilla, ma non cade.
Per questo motivo al fiammeggiante finale della seconda stagione è coinciso un inizio di terza all’insegna dell’abiura. Il dittatore si ritira a vita privata, coltiva un orticello, sogna il silenzio dell’inazione, la vera fine del percorso eroico: la ricaduta nell’anonimato. Sarebbe un finale a suo modo indegno, ma sarebbe comunque un finale con buona pace del successo presso un pubblico non troppo desideroso di non rinnovare il suo appuntamento del lunedì con dei personaggi che gli sono diventati compagni di strada.
Il problema è che la serialità televisiva (soprattutto a fronte dell’audience) pretende l’alzarsi della posta. Ma come alzare la posta di una narrazione che fin dall’inizio si era confrontata con gli assoluti? Se l’eroe ha già dato una risposta al dilemma della vita e della morte, cosa può fare al rinnovarsi della stagione di caccia? Cambiare idea?
Di fronte all’incertezza la sesta stagione (tra tutte le più fiacca) risponde frantumando le premesse. Indecisa sulla definizione del percorso dell’eroe (che è rimesso in discussione per la sesta volta) moltiplica i punti di vista. Spezza il gruppo in vari sottogruppi e fa di ciascuno il protagonista di una puntata (qualche volta più di una). Ogni personaggio esperisce così sulla propria pelle il dilemma etico tra giustizia e sopravvivenza che però è sempre lo stesso perché è anche l’unico possibile in un mondo diviso tra gli ideali di bianco e di nero.
Sicché la dinamica vincente della sesta stagione è quella della dialettica a due. Due personaggi che rappresentano due punti di vista inconciliabili (emblematico il duo Carol – Morgan simboli di fede nella vita e certezza del dover portare morte) che si scontrano senza pervenire a una soluzione concreta. Tutte coniugazioni diverse, in fondo, del dilemma unico e assoluto che, detronizzato dalla centralità dell’asse narrativo, moltiplica i soggetti perdendo, alla fine, di vista l’unicità del complemento oggetto. In questo modo, però, il periodo principale smette di reggere, nel discorso, la proposizione finale e l’agire dei personaggi tende al vuoto.
In fondo la sesta stagione di The walking dead mette in scena un continuo perdersi per non ritrovarsi. I personaggi, di colpo innalzati al ruolo di protagonisti dei singoli episodi, esperiscono in piccolo un percorso che lo spettatore ha già vissuto nelle puntate precedenti. Si interrogano su domande che sono già state sentite, cui si è già tentato di dare una possibile risposta. E a ogni passo riaffrontano l’annosa questione di tutto il male che hanno dovuto compiere per essere riusciti a sopravvivere: la sagra disperante del deja-vu.
Frattanto il racconto tende al grado zero della stasi narrativa. Persi nel bisogno forte di psicologizzare il narrato, gli autori chiudono gli episodi in varie forme di nulla di fatto. Ci sono episodi in cui davvero nulla accade fino all’emblematico cliffhanger dell’ultima inquadratura e altri episodi in cui conta sola l’attesa della catastrofe imminente.
Il tempo narrativo si riavvolge perennemente su se stesso (come nell’episodio Il secondo livello in cui il ripetersi della situazione di partenza è sintomo di una difficoltà a uscire di situazione), si parcellizza e si individualizza. Ma troppi personaggi non hanno abbastanza spessore per sostenere il peso di un racconto che punta l’obiettivo solo su di loro e molte puntate franano nell’inconsistenza mentre personaggi importanti finiscono per porsi addirittura in contraddizione con loro stessi e con il loro travagliato vissuto (Carol). In questo modo The walking dead stagione 6 finisce per diventare un’estenuante corsa sul posto che non prende mai nessuna direzione e riporta sempre al punto di partenza (come il viaggio del camper nell’episodio finale).
Per tutta la sesta stagione, la narrazione è continua promessa di un “succederà” che si sgonfia non appena si concede l’impressione di un “sta succedendo”. Ogni puntata è l’apetizer della successiva. Ogni mezza stagione rimanda l’attesa a quella successiva. Ogni catastrofe è solo l’antipasto di quello che verrà dopo che, ci si dice con spietata operazione mediatica, sarà terribile.
L’intera sesta stagione è montata sull’attesa di Negan che arriva solo nelle ultimissime inquadrature. E come sempre avviene, la puntata finisce con l’inizio dell’azione. Dopo tanta attesa: i titoli di coda.
Nel continuo braccio di ferro tra serialità e bisogno di una chiusa, in The walking dead è sempre stata la prima a vincere sin dalla prima stagione. Mai però la vittoria delle ragioni del commercio era stata così totale, così assoluta e così indiscutibile e mai il dilemma etico era stato così poco interessante al punto che di molti passaggi si perde il senso senza che si faccia urgente un bisogno di spiegazioni (Che risposta dà Michonne alla domanda di Deanna? Cosa guida le incertezze sentimentali di Abrahm? – e l’elenco sarebbe ancora lungo).
In questo modo, però la narrazione diventa proprio come la visione con un solo occhio di Carl: priva del senso della profondità. E lo zombie, mostruoso sfondo della tragedia dell’agire umano dei vivi, diventa oggetto di scena. Non più perturbante, digrigna i denti in un asmatico sbadiglio. Non più errante, non più walking aspetta solo il gesto pietoso della lama del coltello che gli trapassi il cranio.
The longing dead .