Ritratto di famiglia con girasoli è in realtà il terzo capitolo di una ideale trilogia del silenzio e della parola che Vittorio Pavoncello ha iniziato già nel 2010 con Il cielo come destino e che era proseguito poi nel 2014 con Roma una breve eternità.
Diciamo qui ideale perché ad essere centrale nel disegno di composizione dei singoli tasselli di questo interessante trittico non è semplicemente il tema comune della Shoah, ma il principio formale che sottende alla definizione delle scelte estetiche di volta in volta portate avanti.
Del resto, a uno sguardo appena superficiale sui tre titoli, sorprende, in fondo, la straordinaria eterogeneità degli argomenti trattati, malgrado il comune sfondo doloroso degli orrori dei campi di sterminio. Se il primo tassello della trilogia, infatti, ricostruiva l’odissea dei profughi ebrei che cercavano rifugio nella nascente Israele e il secondo era una riflessione a tratti scorata della realtà romana prima e dopo la promulgazione delle leggi razziali, questo Ritratto di famiglia con girasoli, forte delle pagine bellissime di Wiesenthal che è l’aggancio letterario al disegno, si rivela una pregnante riflessione sul tema della colpa e del perdono.
Al di là dell’evidente varietà tematica il principio di fondo che Pavoncello rintraccia in tutti e tre i titoli della trilogia è un nucleo comune che riguarda in specifico la persistenza dell’orrore e delle cause che l’hanno generato anche all’interno della società contemporanea. Il punto di vista dell’autore non è quindi vuotamente museale né si pone nella posizione della semplice commemorazione da svolgersi nell’occasione comandata (come molte, troppe, produzioni relative alla Memoria), ma riflette con insistenza disturbante sulle continuità tra l’atteggiamento razzista di allora e l’intolleranza nei confronti del diverso di oggi.
Messa in scena di fantasmi che popolano il nostro vivere, i tre film sono, quindi, espressione di una perturbanza dell’inconscio collettivo, sale e aceto su una ferita che non si è ancora rimarginata per la semplice ragione che il nostro contesto culturale ha preferito ignorarla, rimuoverla a porla nello statuto di un’odiosa amnesia collettiva.
Non è un caso che in queste opere sia così portante la messa in scena di un trauma che, addirittura in Roma una breve eternità prende la forma della seduta psicanalitica in cui spettri del passato riversano nel presente, rispecchiandovisi, identiche ipocrisie e reticenze.
Per far fronte a tanta messe di suggestioni e a tanta complessità di sovrapposizioni tra privato e pubblico tra sociale e culturale, il linguaggio cinematografico da solo non basta più ed ecco che nei tre film Pavoncello, alla ricerca di un’utopica fusione tra la dimensione passivizzante della ricezione cinematografica e quella invece brechtianamente attiva del teatro, avvera un’interessante crocevia di diverse istanze estetiche.
Posto a metà strada tra teatro e cinema, tra musica e pittura, il cinema di Pavoncello aspira alla dimensione di unicum che disturbando invita alla riflessione e mostrando impone nello spettatore il bisogno di una presa di posizione che sia anche azione.
In Ritratto di famiglia con girasoli, nella messa in scena di una famiglia distrutta dalle ombre della Shoah, dilaniata dal conflitto tra un figlio neonazista e il fratello che non trova risposta agli interrogativi del passato, questa riflessione passa per una ridefinizione dello spazio memoriale.
Il racconto prende le mosse in una casa strategicamente a metà strada tra il ghetto da dove furono deportati gli ebrei romani e il carcere di Regina Coeli da dove furono invece prelevati gli ebrei destinati all’eccidio delle Fosse Ardeatine. Qui in questo spazio ponte, la casa è solo un insieme di muri che nascondono scheletri negli armadi e scomode verità che si vorrebbe nascondere a se stessi prima ancora che agli altri.
In questo quadro silenzi e parola (e non, come di solito, silenzio e parole) tessono un complesso ordito che aspira alle altezze di un contrappunto filosofico sugli orrori della storia e i mostri che nascono dalla rimozione di scomode responsabilità.
Sullo sfondo l’estremo nitore della posizione di Wisenthal che ha dedicato la sua esistenza al perseguimento di una giustizia sempre lontana dalla semplice vendetta e capace di illuminare l’ordinario squallore del semplice sopravvivere al passato.
Seguendo un disegno a tratti volutamente ostico, ma sempre assolutamente rigoroso Pavoncello ci consegna un ritratto non pacificato del nostro rapporto con il passato e ci lascia con il disperato bisogno di guardare in faccia il nostro presente costruito sulle macerie senza indulgenze o false ipocrisie.