Godzilla II: King of Mosters arriva quasi cinque anni dopo il Godzilla di Gareth Edwards, un’opera che aveva tentato di rilanciare il franchise (Toho – Warner Bros) del mostro radioattivo in una chiave più contemporanea e in linea con i successi del Blockbusteramericano e dei Cinecomics. In questi cinque anni ne è passata di acqua sotto i ponti della fluviale produzione high budget a segno di un bisogno di cambiamento per non incorrere nella disaffezione del grande pubblico. Qui, in Godzilla II, il primo e più importante segno del cambiamento è il fatto che Michael Doughertysubentra al timone di comando prendendo il posto che fu del più pensoso Gareth Edwards.
Restano, quindi, le atmosfere plumbee e pensose del capitolo precedente di questo ennesimo cinematic universe, ma la carica introspettiva e il bisogno di riflessione anche ecologica che ancora erano presenti nel primo capitolo, lasciano il posto in maniera definitiva a un bisogno di azione scevra da ogni preoccupazione ulteriore.
Forti del bisogno di esagerare, che non sta solo nella taglia big size del titano Godzilla, il regista, che è qui anche sceneggiatore (e non fa bene né l’una né l’altra cosa) riesuma dal regno dell’oblio tutto uno stuolo di altri titani: dalla nemesi terribile di Godzilla incarnata dal dio mostro Ghidorah (di cui si proclamano origini extraterrestri secondo una ben strana spiegazione scientifica fornita in extremis) al mitico Mothra che del mostro lucertoloide è un insospettabile simbionte e che resta l’unico restituito sullo schermo con un notevole estro visionario. Ma non mancano Rodan, mostro alato qui promosso al rango di dio del fuoco e tutti gli altri non meglio precisati portenti della natura.
L’idea di fondo è che, dove non può bastare un singolo mostro a tenere desta l’attenzione del pubblico, riusciranno in tanti, cantando insieme l’inno dei moschettieri a squarce fauci.
Di fatto l’agire dei mostri è, secondo l’unica intuizione di sceneggiatura, mosso da un bisogno primordiale: la definizione del maschio alpha che decida le azioni del branco che, fino all’altro ieri, erano ridotte a un dormire sopito in mezzo alle montagne. A questa immagine non proprio action si aggiunge, con fantasiosa interpretazione degli scienziati protagonisti di cotanta epica, l’idea che i mostri altro non siano che anticorpi del sistema naturale del pianeta e che, essendosi l’uomo spinto troppo in là nello sfruttamento delle sue risorse, la loro azione curativa si sia resa necessaria. Di qui il risveglio dei mostroni che altro non vogliono se non riportare equilibrio tra le parti sterminando in tutta calma almeno la metà della popolazione mondiale.
Godzilla, insomma, ci uccide perché ci vuole bene (in rispetto all’atavica immagine del Godzilla prediletto dai bambini nei tardi anni ’50). O perlomeno vuole bene al pianeta e la Natura, madre matrigna, non fa altro che bacchettarci sulle mani perché davvero siamo stati cattivi.
Così mentre Trump proclama che non c’è surriscaldamento globale perché sotto casa sua piove e qui da noi i Socci si lanciano in proclami anti Greta, Godzilla, inquieto, batte la coda e distrugge una città.
Al plot mostresco corrisponde, in scontata specularità, un plot umano di rara inutilità. Di fondo c’è la consueta storia dei nuclei familiari disgregati che solo nella catastrofe possono trovare lo spazio di un autentico rinsaldamento. Occorre, quindi, la fine del mondo perché un papà possa riabbracciare la figlia (Millie Bobby Brown l’unica che reciti in tutto il film) e perché la madre possa illuminarsi sulla via di Damasco capendo i suoi errori (Beata lei, perché tra un cambio d’idea e l’altro è stato arduo per noi capirla). Frattanto è tutto un inseguire aereo e terrestre di mostri cui Ghidorah, sconfitto Godzilla in un primo duelletto col terzo incomodo di bombe umane, ha dato la libera uscita come regalo per il provvisorio possesso dello scettro del comando.
Fingendo per un momento di non sapere nulla di geografia (come la maggior parte del pubblico in sala) e che quindi siano credibili le migliaia di chilometri percorsi in pochi minuti tra una scena e l’altra, resta da deprecare la qualità dei dialoghi a metà tra i biscotti della fortuna e le spacconate dei bambini che discutono tra loro a chi ha il giocattolino più bello.
Così il film scorre, tra esplosioni e parole al vento, verso il suo inevitabile finale che è gridato sin dal titolo (e non arrivino lamentele di spoiler!) mentre si affaccia sottile un messaggio di fondo la cui ambiguità sconcerta.
Perché se è vero che il percorso dell’eroe passa qui sempre attraverso il sacrificio, è anche vero che qui a sacrificarsi sono prima di tutto gli scienziati, colpevoli certo di aver portato l’umanità sull’orlo del baratro ecologico, ma che divengono di fatto capri espiatori di un agire umano che è prima economico, poi tecnologico e solo in ultimo scientifico. Qui, invece, la scienza muore per ridare spazio a un rinnovato pantheon mitologico, in cui sia un dio Godzilla (emblema di un tiranno illuminato che però agisce seguendo l’istinto della bestia) a decidere le sorti di tutti. Mentre l’uomo, rinunciando alla ragione, rispronfonda, felice e grato, nelle superstizioni e nei riti più tribali.