La seconda stagione di Stranger Things aveva rappresentato, nell’economia della definizione dei confini di un universo credibile, la tentazione del romanzo.
Nel desiderio di sondare le origini di un personaggio misterioso e iconico come Eleven e orientati dalla necessità di amplificare il senso di minaccia del mondo sottosopra, i Duffer Brithers avevano di fatto operato tutta una serie di digressioni narrative (non tutte ugualmente motivate) che avevano non poco complicato i percorsi dei singoli destini dei vari personaggi.
Nume tutelare del percorso era stato, ovviamente, Stephen King, in particolar modo i romanzi a chiave più o meno fantascientifica, come L’incendiaria (da cui un poco discende l’idea del superpotere incarnato nel cuore di una bambina) o L’ombra dello scorpione dove la minaccia sta tutta in un virus che inizia ad agire come un banale raffreddore, ma diventa letale nel giro di pochi starnuti.
In tutti i casi vigeva l’idea, molto anni ’80 a pensarci su un momento, di una minaccia sfuggita dalle mani del governo così intento a tramare nelle pieghe della guerra fredda da non porsi più scrupoli etici e arrivando a mettere in pericolo gli stessi civili che spesso non sanno di avere una rampa di lancio missilistica nel giardino sotto casa.
Le trame governative sono la parte più articolata della seconda stagione che definisce per Eleven in particolare la raffigurazione di due genitori: un padre, in realtà suo carceriere pronto a spingerla all’uso dei suoi poteri anche per uccidere un gattino (è l’idea di arma da impiegare contro i russi, in fondo), e una madre completamente persa nel chiuso della sua coscienza da un trauma irreversibile e che fornisce appena qualche chiave per interpretare le origini del personaggio.
Idee, queste, tutte molto kinghiane che affondano nel clima di incertezza politica della guerra fredda e la illuminano di luci fosche.
Frattanto Will, il ragazzino che spariva nella prima stagione, diviene qui emblema di un altro incubo della guerra fredda, l’idea che il nemico sia tra noi e ben nascosto. Posseduto dallo spirito del Mind Flayer, infatti, il povero ragazzo è il prototipo, in chiave orrorifica, del cittadino medio americano cui è stato fatto il lavaggio del cervello e che diventa cellula dormiente di un presupposto piano di invasione dell’altro.
Tutte queste idee di partenza si sviluppano e ritrovano una linearità narrativa nella terza stagione che porta al centro la contrapposizione tra blocco comunista e blocco capitalista che era stata l’anima segreta delle prime due stagioni. Solo che ora il governo americano è spaventato finalmente dai pericoli dell’apertura di un varco con l’altra dimensione che permette in passaggio di creature mostruose (di nuovo il King del più recente The mist anch’esso salito agli onori della serialità televisiva dopo l’ottimo film firmato da Frank Darabont), e ha deciso di non tentare più la strada della sperimentazione sui portali. A prendere il posto del governo americano sono quindi direttamente i sovietici, che scavano sotto la piana normalità della cittadina americana (che tanto normale non è mai stata) tunnel e cunicoli nel tentativo di aprire nuovamente un cancello sull’oltre dal momento che a casa loro non ci riescono.
Questa svolta narrativa permette di spostare il piano della narrazione verso nuovi lidi che non contraddicono, ma anzi, ridefiniscono quanto narrato nelle precedenti due stagioni. Si modifica, quindi, e anche considerevolmente, l’orizzonte citazionista della serie, che resta forse l’anima più vera di un prodotto trasversale, capace di coinvolgere sia chi le citazioni le capisce, sia lo spettatore meno accorto e più giovane.
Ecco allora prendere corpo nel piano della narrazione, il riferimento ovvio a un film come Alba rossa (tra l’altro oggetto non recentissimo di un remake abbastanza pessimo). Ecco arrivare, come niente, dal grigio di una ventura apocalisse nucleare, una spia russa che è un po’ Terminator, un po’ Danko e un po’ “te spiezzo in due” Rocky. Ed ecco che agli onnipresenti rimandi ai Goonies e a Stand by me (ancora King), si aggiungono riferimenti più puntuali a Ritorno al futuro e a Day of the dead (entrambi visti al cinema, il primo nella dinamica più innocua della trama adolescenziale, il secondo incubo politico di una società americana più mostruosa di quanto non voglia credere).
Se l’universo citazionista si amplia e approfondisce, da parte sua si semplifica, invece, già lo accennavamo, la strutturazione narrativa. Contro i capitoli autoconclusivi della stagione precedente, abbiamo qui, invece, esemplificate, quattro linee narrative basiche destinate a convergere nel finale risolutivo: la prima con la narrazione afferente Dustin che per caso sente una trasmissione in russo e comincia a cercare una risposta al nuovo enigma, la seconda con il gruppo dei restanti amici, che percepisce, grazie al povero Will ancora legato al mondo sottosopra, il ritorno dei mostri, la terza che mette in scena le indagini di Nancy, aspirante giornalista, incuriosita dalla strana attività dei ratti in città e l’ultima con Joyce e Hopper che, mentre decidono se possono stare insieme, capiscono che qualcosa non va perché tutte le calamite perdono le loro proprietà magnetiche.
Frattanto i mostri, assumono connotazioni più smaccatamente legate alla paura comunista impossessandosi dei corpi dei cittadini di Hawkins come in una novella Invasione degli ultracorpi in cui i singoli sono in realtà parte di un unico organismo come è già per le formiche o le api. E di qui arriva il mistero più incredibile della serie che sceglie un titolo latino (E pluribus unum) che noi italiani scegliamo di tradurre con l’incredibilmente inerte L’arma, a segno che i delitti contro le sfumature linguistiche continuano anche ora che la TV on demand ci permette di vedere le serie direttamente in lingua originale.
Di fronte all’incubo comunista, il canone prevede però – attenti spoiler – che a vincere sia lo spirito di intraprendenza dell’americano medio che non deve sedersi ad aspettare il super potere del super eroe di turno. Sarebbe, anzi, questo, un controsenso all’interno di una narrazione a suo modo di propaganda dal momento che è tutta tesa a dire quanto erano brutti e cattivi i sovietici e quanto sono sani i valori del capitalismo che profuma di torte di mele messe a raffreddare sui davanzali delle Elm Street americane. Ed ecco quindi che il deus ex machina della stagione precedente, Eleven, deve essere messo in panchina mentre a trionfare deve essere l’azione combinata e organizzata dei singoli, pronti anche all’estremo sacrificio individuale.
Stranger Things stagione 3, quindi, rilancia la posta messa in gioco nell’episodio precedente ritrovando la dimensione dell’apologo della prima stagione, ma complicandola in una visione che nel frattempo si è allargata oltre i confini della storia amicale e familiare che solo per caso si trova invischiata in una trama più grande. Lo fa rispettando i canoni delle tradizioni da cui cita grata, con sincero spirito di emulazione. Ed è questo il suo aspetto più bello, da post-moderno che anela disperatamente a ritrovare l’ingenuità di un tempo e la sincera voglia di stupirsi, divertirsi e anche un poco spaventarsi.
Il risultato è molto convincente su tutti i fronti, ma permane, a fine visione, il dubbio su quanto queste magnifiche montagne russe, esemplificate nella metafora del luna park del 4 luglio che domina un intero episodio, abbiano significato e valore nel mondo di oggi con tutte le sue contraddizioni. Un dubbio lecito, in fondo, perché sin qui il miglior fantastico non è mai stato mera e semplice evasione e si ha invece l’impressione, a fine stagione, che cominci a essere un po’ quella la direzione che, volenti e nolenti, i Duffer Brothers stanno di fatto prendendo.