A metà anno scolastico un’affabile professoressa di tedesco deve assentarsi causa maternità. Prende il suo posto un collega altero, nero e freddo che si rivolge alla classe (ma anche ai suoi colleghi) con un rigore così insolito che, a tutta prima, la preside lo scambia quasi per un docente di matematica.
La classe risponde come può alle difficoltà imposte da un rapporto improntato a tanta impersonalità sino a che una ragazza non si suicida e il capro espiatorio ideale sembra essere proprio il nuovo venuto.
A raccontarne brevemente la sinossi ci sembra, fatalmente, di parlare di un altro film che, con quello che abbiamo appena finito di vedere, ha ben poco in comune. Razredni sovražnik (in italiano Nemico di classe) non è infatti un film sulla scuola, né è un film che racconta il rapporto alunno-professore. Non è neanche, strano a dirsi, un film sull’elaborazione del lutto e sul senso della morte.
Non vuole essere un film a tesi, ma neanche una di quelle classiche gallerie di personaggi più o meno simpatici che sono spesso i film sui compagni di classe. Non ha vocazione allo spaccato generazionale, né pretende di dire cose sagge e fondamentali sul dialogo tra padri e figli.
O meglio: è tutte queste cose, senza che nessuna di queste divenga la bussola della sua ragion d’essere. Così anche lo spettatore, privato di una stella polare, guarda il film senza riuscire, a tutta prima, a capire davvero quale sia il motivo di tanta gelida poesia e perché lo sguardo gli si annebbi di tante emozioni quando la messa in scena appare così improntata a tanto spirito di asettica geometria.
La ragione vien fuori poi, quando il film infila l’ultimo rettilineo del suo accorato finale e d’improvviso ci si accorge che, al di là della scuola che è lo sfondo, del lutto che è il movente e del conflitto che è la materia palpitante, Razredni sovražnik è un film che parla prima di tutto di rapporti, dello stare insieme e del non riuscire, in fondo, a capirsi abbastanza.
Rok Biček, regista e cosceneggiatore di questo piccolo miracolo, è un giovane trentenne cui auguriamo tanta strada. Dalla sua posizione privilegiata sa stare vicino ai suoi studenti affamati di ascolto, ma sa tenere una giusta distanza anche dall’antipatico docente di tedesco e dai suoi colleghi che non scadono mai nella macchietta anche quando la tentazione è forte.
Anzi la messa in scena tutta finisce per aspirare al rigore equanime del docente, cercando nella fotografia toni desaturati ai limiti di un bianco e nero bruciato dal bisogno di luce. Un digitale freddo, ma mai distante, che caracolla nella scelta di una macchina a mano tesa a restituire il senso precario di un mondo sempre sul punto di franarci sotto i piedi e in cui i legami stessi, i rapporti di amicizia o di dovuto rispetto sono così labili e aleatori che l’inquadratura a stento li cattura.
Razredni sovražnik diventa così un commosso resoconto di derive esistenziali, il racconto dolente del nostro essere tessere di un puzzle per sempre condannate a non trovare altri pezzi con cui combaciare. È un film che vigila sulle nostre coscienze a ricordarci che la diversità è anche spesso l’impossibilità a trovare una direzione comune e che, quando una strada viene intrapresa, non bisogna per questo dimenticare che il mondo non è fatto solo di bianchi e di neri.
Così, fidando su una regia dal rigore quasi hanekiano (ma con un afflato più umanista che teoretico a distaccarlo fortemente dal modello) Rok Biček ci consegna un’opera piccola e memorabile che fonda parte dei motivi del suo fascino su uno dei cast più sicuri, affiatati e a un passo dalla perfezione che ci sia mai capitato di incontrare.