Si intitola Zombie, il corto che Giorgio Diritti ha realizzato in chiusura del corso del 2019 di sceneggiatura e regia, “Dall’idea al set” tenuto all’interno della Fondazione Fare Cinema di Marco Bellocchio di Bobbio.
Un corto scolastico, dunque, venuto fuori dopo un complesso brainstorming di giovani sceneggiatori che hanno proposto al regista varie idee e hanno poi lavorato su quella che l’autore di Volevo nascondermi ha sentito più vicina alla propria sensibilità.
Un prodotto scolastico, dunque, dimostrativo di un percorso, ma non per questo privo di interessi e di una sua autonomia che gli è valsa una selezione per il Festival di Venezia all’interno della SIC.
Al centro la storia piccola di un nucleo familiare in disgregazione, come troppi in questo scorcio di nuovo millennio.
Lei, la madre, una donna decisa e ferita, spigolosa, ma ancora capace, apparentemente, se non altro di una simulata dolcezza, deve confrontarsi con le difficoltà di essere stata lasciata per un’altra dal marito.
La figlia, di età scolare, bambina sensibile, ma con pochi strumenti per interpretare il reale, le chiede continuamente del padre, per poi accontentarsi di risposte evasive e delle consolazioni fugaci di un gelato panna e cioccolato da lasciare a metà per sopraggiunte chiamate al cellulare.
Il padre, infine, invisibile assenza, sta tutto nei messaggini con cui risponde alle richiese di incontro della moglie che presto sarà ex, con buona pace di tutti.
Tre destini, quelli messi in scena in Zombie, che ruotano intorno alla festa di Halloween in cui la piccola si vestirà da morta vivente, con una maschera che, come da tradizione carnevalesca, sembra stare lì per rivelare, più che per nascondere.
Ed è proprio in questa considerazione, che ci sorprende il pensiero che più che il caracollante mostro partorito dalla fantasia di Romero, simbolo dell’uomo massa che si arrende al suo destino di merce avariata della società consumistica, la creatura più adeguata a rendere il senso di questa piccola tragedia silente, poteva essere piuttosto il vampiro.
Chi meglio del triste succhiasangue, infatti, avrebbe potuto restituire il senso segreto del reciproco sbranarsi di solitudini che il corto, che nasce piccolo per crescere pian piano, mette in scena?
Perché in questo nucleo familiare che marcisce sotto i nostri occhi, sotto la spinta armata dei due genitori che combattono sulla carne fremente e dolorante della figlia, sono tante e male assortite le crudeltà che si nutrono delle reciproche debolezze.
Nel frattempo, i silenzi dei non detti divengono sacelli sacrificali su cui si consuma l’olocausto dell’innocenza, mentre tutto intorno bambini giocano, ridono, scherzano, nell’indifferenza di un mondo che va avanti ignaro.
E sono proprio i silenzi i grandi pregi di Zombie, l’attenzione ai non detti che matura con l’accrescersi della nostra capacità di interpretare i segnali sparsi di un malessere diffuso che solo alla fine implode in tragedia, chiudendosi nel silenzio di una maschera di carta.
Silenzi che, forse, non arrivano a rendere Zombie quel gioiellino che avrebbe potuto essere, ma che ci consegnano decisamente qualcosa di più che un classico prodotto da “saggio di fine anno”.