Scrive Giorgia Cappelletti nella sua non-prefazione a La luna e l’Eden (Acheron Books, 2020, da poco anche in ebook) che i racconti di Laura Silvestri sembrano perle. “Sono brevi, levigati, rotondi, conclusi in se stessi”, chiosa con sintesi.
La non-prefatrice del volume (quando si ha a che fare con i volumi curati da RiLL, tocca, spesso, anche reinventarsi le categorie accademiche riconosciute) ci aveva ben anticipato, poche righe prima, la sua intenzione di prendersi il lusso (che chi scrive invidia di tutto cuore) di non “pontificare sulla letteratura fantastica o analizzare lo stile dell’autrice”, per parlare di un’amica, oltre che collega e compagna di avventure. Ci perdonerà, speriamo, se in questa sede partiamo dalla sua non-metafora per andare oltre, nel tentativo di meglio inquadrare il percorso artistico della Silvestri che, per inciso, ci pare assai coerente.
Del resto, in una recensione si pontifica, altrimenti non sarebbe una recensione.
Procediamo comunque con ordine, seguendo la traccia della Cappelletti.
Se qualcosa rimanda alla perla nei racconti della Silvestri, ci pare, questa cosa sia prima di tutto il taglio, la slabbratura intorno alla quale inizia un disperato tentativo di cura.
Come nell’ostrica, infatti, anche nei racconti della scrittrice laziale, tutto ha inizio con una ferita che è diretta conseguenza di una visione del Reale tutt’altro che banale. Quale che sia l’origine del taglio, ha relativamente poca importanza. Può trattarsi dell’improvvisa, dolorosa, presa di coscienza di qualcosa che non funziona come dovrebbe nell’esistente, oppure la momentanea illuminazione su una tragedia che sino a quel momento era parsa celata, fatto sta che, improvvisamente, appare uno squarcio in cielo (ci piace la metafora con cui Pirandello spiegava Shakespeare e il Barocco che, per restare alla Cappelletti, ha molto a che vedere proprio con le perle) e ciò che fino a quel momento si poteva scambiare per equilibrato, diventa sbilanciato. A questo affanno inaspettato, la scrittrice Silvestri risponde, appunto come un’ostrica, aggiungendo parole intorno al granello di sabbia che, crudele, è andato a infilarsi proprio lì, a un passo dal cuore. Parole che si agglomerano secondo meccanismi di volta in volta cangianti, che procedono per accumuli, diversi a seconda delle asperità della ferita, e che levigano, nel tentativo di rendere più innocuo quel dolore. Tentativo inusitato, ma destinato al fallimento, perché la contraddizione è irrisolvibile, la ferita insanabile. Del resto, la letteratura, non importa quanto buona, non ha mai potuto cambiare il mondo, semmai è riuscita a renderlo appunto un poco meno acuminato. Resta, quindi, nel lettore, il piacere di una lettura raddolcita nel miele della prosa ben tornita. E resta anche la sensazione d’esserci persi, per qualche tempo, nei meandri di suoni e storie che, senza distrarci dalle contraddizioni del vivere, ci invitano, se non altro, a guardarle da un punto di vista almeno inusuale, che però (e qui sta tutta l’utopia!) ci fa vedere meglio. Divertendoci, magari, ma lasciandoci anche a riflettere sul fatto che, forse, qualcosa dovremmo fare per evitare la catastrofe del baratro che per una volta abbiamo visto proprio bene. Le parole della Silvestri si condensano comunque per strategie di genere (o di generi, visto che in La Luna e L’Eden se ne contano tanti, tutti attinenti al fantastico) e, in quanto tali, si adeguano a una grammatica che qualche volta sta un poco stretta al bisogno di narrare in libertà. Ed è in questi momenti che le strategie narrative si fanno inusitatamente ricche e piene di sorprese. Basti confrontare i due racconti nipponici ospitati nel volume, allora, per rendersi conto di come la straordinaria libertà inventiva dell’autrice sappia rimodulare gli schemi e le forme narrative in modi sempre cangianti, anche laddove sdarebbe lecito aspettarsi, invece, procedimenti se non analoghi, perlomeno vicini. Il primo, La pescatrice di perle, è, per inciso, uno dei testi che volano più alto. La narrazione parte da una scelta linguistica intrigante: una prosa costruita e ritmata secondo le movenze e ritmi di un giapponese reinventato e accarezzato con evidente affetto cui consegue, quasi come naturale corollario, il ricorso a uno stile apertamente metaforico in cui le molte reticenze e i non detti acquisiscono un peso specifico inedito. Sembra di essere dalle parti di Miyazaki, pur nella componente adulta che allude a violenze di genere su uno sfondo rurale che non sarebbe spiaciuto a Mizoguchi, se non fosse per il finale che rinchiude il mito sulla pagina, invece di riannodare la leggenda al mondo (e al paesaggio) come avrebbe fatto, invece, l’autore di Mononoke. Diversissimo il caso di Chi c’è dietro di te? che ci pare avventurarsi su una metafora ancora più avvincente (una sorta di invasione degli ultracorpi aggiornata al senso di alienazione del mondo contemporaneo), ma con meno arditezze lessicali, anche in considerazione di un’ambientazione decisamente più contemporanea. Sono proprio questi due racconti orientali a farci saggiare con mano il controllo sicuro che la narratrice dimostra nei confronti di maniere e modi anche molto lontani, messi però al servizio di un identico bisogno di confrontarsi con lo sbilanciamento di un reale sempre più globalizzato. Abilità mimetica, verrebbe da pensare, capacità di entrare in meccanismi tra loro diversi, quando non opposti (che hanno in comune Tamerlax – in ghost track , quindi fuori indice – e Mila, in fondo?) per ricondurli a uno stupore fanciullo, a un sense of wonder in cui la magia non è nelle cose che succedono (come nei racconti dei vecchi magazines americani), ma nelle parole che servono per far arrivare quelle cose sino a noi. Come tutte le perle, anche quelle della Silvestri piacciono soprattutto quando sono irregolari, quando rivelano, oltre la forma, la fatica lenitiva che le ha animate. E di momenti intensamente belli è pieno il libro. Leggere per credere.