Sotto una pioggia torrenziale, un bambino gioca con un piccolo transatlantico di plastica. L’imbarcazione caracolla, sopra il montare dei flutti dell’acqua in corsa verso i canali di scarico, e il piccolo la guarda adagiarsi su un fianco, mentre un povero ombrello, molto più grande di lui eppure impotente, non lo protegge dagli scrosci che si abbattono dal cielo.
Giocare equivale a bagnarsi. Non ci sarebbe divertimento, se non ci fossero i vestiti zuppi di pioggia, le scarpe immerse nella pozzanghera e una fantasia capace di popolare il ponte della nave giocattolo con comparse da tragedia catastrofica.
Emmerich fa partire il suo 2012 con un’immagine riflessa in uno specchio: è lui quel bambino che guarda la nave districarsi tra i marosi, è lui il piccolo indiano (questa la nazionalità del personaggio) che si porta impressa, negli occhi tristi, la stimmate di una predestinazione, è lui che, con qualche milione in più da spendere, riesce a riempire lo spazio bianco dell’inquadratura con gli effetti speciali che tutto rendono credibile.
Soldi che gli permettono di restare a bordo campo, a contemplare l’epicedio, mentre si brucia sotto i nostri occhi. Chi faceva cinema ai tempi della cartapesta poteva restare a guardare il tracollo solo fino ad un certo punto, poi i suoi occhi dovevano volgersi altrove, magari verso una via di fuga che non era facile raggiungere. Emmerich, da parte sua, fa cinema nel mondo del digitale e, con questi mezzi alle spalle, può confrontarsi con la catastrofe da pari a pari, senza mediazioni, senza ellissi che ci portano a un momento dopo e a un metro dall’orrore consumato. È lui il visionario che, invece di fuggire in cerca di una salvezza impossibile, sta lì a fissare il Mostro mentre avanza, ammaliato dalla sua bellezza. Come il folle che crede negli alieni, e sogna Roswell e Marylin Monroe tutte le notti, con un sorriso sulle labbra che ce lo fa un po’ beota, ancorché non pericoloso. Un folle che era conscio dell’imminenza della fine del mondo e la cantava alla radio (l’ultimo medium ancora senza immagine) guardando ad uso di un pubblico fatto tutto orecchie. Neanche l’esplosione titanica di Yellowstone lo vede arretrare. Il suo sguardo è come quello del regista: deve registrare l’impossibile, deve tenersi saldo nello sguardo anche se questo costa la vita.
Meglio accendersi nel più incredibile degli incendi che restare lumicino sul bordo della notte.
2012 sta tutto qui: nel prolungarsi del piacere della visione, nell’attardarsi in cerca dell’immagine e del suo ritmo. È il gioco di un bambino che costruisce un mondo con la pazienza di chi ha sempre giocato con le costruzioni della Lego e, per questo, prova più piacere nel distruggere la sua creazione a colpi di cannone. La verosomiglianza conta poco, quando si tratta di chiudere i conti in fretta con un immaginario che deve già proiettarsi al prossimo gioco. Dopo il terremoto, deve venire l’eruzione vulcanica e, poi, lo sprofondamento delle placche e, infine, gli tsunami che ricordano il diluvio universale. Per fuggire si parte da una macchina, si passa al piccolo aereo, per poi imbarcarsi sul gigantesco cargo. Non importa che il gioco sia coerente, conta l’affastellarsi di dimensioni sempre più grandi. Il piacere sta nella capacità di prolungare ed ingrandire, non nella logica del pensiero. Una grandiosità possibile solo alla generazione che ha giocato coi pezzetti di legno annodati con lo spago: quando la nuova ondata di bambini che giocano con le play station passerà dietro la macchina da presa, questa sublimità andrà perduta, perché non viene bene il gioco della distruzione a chi non ha saputo prima costruire.
Epperò dietro al giocattolone c’è il pensiero. Almeno nella formula di Blockbuster con l’anima che s’è immaginato Emmerich. Ed ecco che al gioco si aggiunge un barlume di riflessione. Perché quella barca con cui gioca un bambino indiano di intatta bellezza è il nostro mondo, mentre la rovina che la circonda è quella che ci stiamo costruendo, inconsapevoli, giorno dopo giorno. E il bambino si indigna, quando capisce che tutto è nelle mani dei ricchi, e che solo chi paga il prezzo del biglietto (che è anche quello del cinema) ha diritto alla salvezza, mentre i poveri sono destinati a perire tra i flutti. Il bambino non accetta le ingiustizie sociali, perché non ne capisce il senso. Certo vuol salvarsi, ma gli pare strano che la sua salvezza passi sulle morti degli altri. Ed ecco che il G8 si fa spettacolo grottesco, e che i potenti della terra assumono posizioni ridicole, nella loro ansia di sopravvivenza. Loro guardano l’orrore dal vetro sicuro di una nave pronta ad affrontare i marosi, ma tutto è quasi una gita turistica che la morte se la lascia alle spalle. Come quando, quest’anno si aggiravano (nel mondo vero che è più falso) tra le rovine di L’Aquila a fotografare il sangue come fosse una basilica barocca. La realtà aveva superato la fantasia prima ancora che questa raggiungesse le sale.
Così 2012 abbandona la sua aria di divertissment imperfetto (limiti ci sono in una pellicola comunque troppo lunga) per farsi portavoce di una rivoluzione impossibile. Perché, per quanto si ribelli, il povero è sempre condannato a morte anche se il mondo, con lucida ironia, gira in altro senso. Ai tempi di L’alba del giorno dopo, l’ironia svettava nella scena degli americani che cercavano rifugio in Messico, oggi sta tutta nella scena finale col globo terraqueo su cui capeggia la sola Africa, unica sopravvissuta alla catastrofe, a far da logo ad altri nuovi film, non più hollywoodiani.
Se l’uomo proprio non riesce a superare le ingiustizie sociali ci penserà la Natura a far piazza pulita e ad azzerare i conti: un messaggio non certo ottimista per uno che mette in scena la fine del mondo solo per raccontare come una bambina americana smetta di far pipì a letto.
Del resto, del sociale, non c’erano che frammenti alla deriva: famiglie slegate, distrutte da lutti ed incomprensioni, con figli viziati e il solo sogno dell’Euro (che ha già sostituito il dollaro nelle fantasie dei nuovi ricchi) a farla da padrone.
L’unica famiglia che affronta in un abbraccio l’orrore è proprio quella indiana, col bambino che aveva aperto la pellicola. I veri valori ormai sono solo tra chi muore di fame. L’occidente si limita da tempo solo ad ingannare l’attesa di una catastrofe che non sia da guardare coi popcorn in mano.
(2012); Regia: Roland Emmerich; sceneggiatura: Harald Kloser & Roland Emmerich; fotografia: Dean Semler; montaggio: David Brenner, Peter S.Elliot; musica: Harald Kloser, Thomas Wander; interpreti: John Cusack, Chiwetel Ejiofor, Amanda Peet, Oliver Platt, Thandie Newton, Danny Glover, Woody Harrelson; produzione: Harald Kloser, Mark Gordon e Larry Franco – Columbia Pictures, Centropolis Entertainment, Farewell Productions, The Mark Gordon Company; distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia; origine: USA/ Canada, 2009; durata: 158’