“Pecore in erba” di Alberto Caviglia

 

Le traiettorie del mockumentary si complicano stranamente in Pecore in erba di Alberto Caviglia. Segno, forse, di una realtà sociale, come quella italiana, sempre più sfuggente, legata all’effimero e che sempre più sembra perdere i propri punti di contatto con le dinamiche della Storia. Ma segno anche del trionfo sempre più marcato di un nuovo habitat culturale (quello nel quale siamo ormai immersi) fondato sulla condivisione veloce dei social network e di un sempre più vincente relativismo etico (e culturale) che prolifera all’interno di una memoria sempre più breve. E segno, infine, del trionfo di una ridefinizione televisiva (anche nel senso etimologico di visione da lontano e, quindi, non compromessa né potenzialmente empatica) delle nostre coscienze e del nostro modo di interpretare il Reale.

L’affabulazione del film prende corpo, infatti, nello spazio generico e astratto di un finto telegiornale che annuncia la notizia della scomparsa di Leonardo Zuliani, un ragazzo che ci viene da subito presentato come un attivista dei diritti umani il cui contributo sociale pare essere stato, per quanto breve, incalcolabile.

All’interno del telegiornale, spezzato dalle sigle dei servizi e dal movimento rapido e sincopato delle edizioni straordinarie e delle notizie di grido, viene lanciato un servizio dedicato alla vita di questo personaggio pubblico amato e, a quanto pare, spesso bistrattato per le sue idee innovative e anticonvenzionali. Poco importa, a questo punto, che il servizio giornalistico sia di lunghezza spropositata per reggere a un principio di verosimiglianza finzionale (il segmento costituisce di fatto almeno il 90% del lungometraggio: troppo per un normale servizio giornalistico) perché la cornice televisiva ha già posto in chiaro le dinamiche e le traiettorie del complesso gioco di scatole cinesi che costituiscono il film.

Attraverso interviste alle persone che conobbero il ragazzo, grazie all’ausilio di brevi spezzoni di un film che addirittura ne racconta le gesta secondo i dettami di una sorta di finto neorealismo (ma le immagini e, soprattutto, la locandina rimandano a un certo modo televisivo di guardare al cinema dei telefoni bianchi) e con sequenze di repertorio bellamente piegate a raccontare altro, Caviglia, di fatto, destruttura i meccanismi della retorica televisiva dimostrandone non solo la sostanziale inconsistenza, ma anche l’insita pericolosità.

La peculiarità di Lorenzo, infatti, sta nel suo antisemitismo congenito. Fin da piccolo, il futuro attivista, odia gli ebrei e non sembra avere bisogno nemmeno di un motivo per giustificare a se stesso e agli altri la sua avversione. Il suo problema, semmai, è quello di vivere in un periodo in cui l’antisemitismo è, almeno a parole, profondamente avversato, giudicato e spesso condannato. Il piccolo Lorenzo, insomma, si trova a vivere in un contesto sociale che rifiuta il suo modo di essere ed egli è costretto a nascondere agli altri le sue reali inclinazioni mentre il mondo continua a guardarlo come se avesse dentro qualcosa di sbagliato. Le lotte di Lorenzo per affermare la propria identità e per permettergli di continuare a odiare gli ebrei in “grazia di Dio” sono, quindi, la base di un vero e proprio paradosso percettivo che può trovare solo nel contesto televisivo per cui tutto è omologabile a tutto, il suo terreno più fertile.

La premessa teorica del film, insomma, sposta il problema dell’antisemitismo verso il punto di non ritorno del paradosso etico filtrato dal linguaggio che parte da una domanda semplice semplice: se davvero è lecito perseguire la propria felicità attraverso l’affermazione della propria personalità e delle proprie inclinazioni, allora perché deve essere proibito permettere a una persona che può essere felice solo odiando, di odiare? Sulla base di questa domanda Caviglia compone una vera e propria girandola di situazioni paradossali in cui Lorenzo passa dal ruolo di carnefice (a scuola maltrattava il compagno di classe perché ebreo) a quello di vittima di un sistema che gli impedisce di fatto di esprimere se stesso e di realizzare appieno il proprio potenziale. In questo modo il film opera una limpida dimostrazione di come il relativismo riesca, attraverso strategie comunicative adeguate, a trionfare su ogni imperativo etico. Da questo ritratto emergono una serie di considerazioni poco rassicuranti.

La prima di natura specificamente metalinguistica pone l’accento sul problema del linguaggio: sia il linguaggio sempre più cool pop utilizzato da Lorenzo per farsi accettare come antisemita, sia quello del film stesso che nel raccontarlo se ne appropria per ribaltarlo. Una visione scorata, questa, che ci pone davanti al canto già spiegato di un nuovo linguaggio di propaganda che passa attraverso televisione e network come la vecchia propaganda fascista e nazista passava attraverso cinema, giornali e manifesti. Ma soprattutto un linguaggio che basta a se stesso, che ha perso ogni punto di contatto con il contenuto che dovrebbe veicolare e che trionfa nel suo perpetuarsi indifferente lasciando la società sola, a naufragare sulla sua stessa superficie increspata di spot e video virali.

La seconda, più sofferta, è la dimostrazione palese di come la cultura italiana, soprattutto in certi strati sociali e in certi contesti, sia ancora piena di uno strisciante sentimento razzista che quindici anni di giornate della Memoria e la sconfitta del Fascismo non hanno saputo estirpare.

Nel complesso Pecore in erba è un film che parte da premesse teoriche intriganti portate avanti con coerenza e un senso comico che cerca quel riso amaro che il nostro cinema conosce sempre meno. Il suo limite è, forse, nell’eccessiva lunghezza e nella sua incapacità a tagliare alcune gag in fondo divertenti, ma che appesantiscono un poco il ritmo e intorbidano le carte del discorso (la parte relativa ai nerd, ad esempio). Al di là di tutto la sua riflessione è importante e sarebbe un errore prenderla sottogamba.

 

 

(Pecore in erba); Regia: Alberto Caviglia; sceneggiatura: Alberto Caviglia, Benedetta Grasso; fotografia: Andrea Locatelli; montaggio: Gianni Vezzosi; musica: Pasquale Catalano; interpreti: Davide Giordano, Anna Ferruzzo, Bianca Nappi, Mimosa Campironi, Paola Minaccioni, Omero Antonutti, Alberto Di Stasio, Francesco Russo, Marco Ripoldi, Niccolò Senni, Massimo De Lorenzo, Josafat Vagni, Massimiliano Gallo, Antonio Zavatteri, Andrea Radoccia, Lorenza Indovina, Carolina Crescentini, Vinicio Marchioni, Francesco Pannofino, Francesco Arca, Tinto Brass; produzione: On My Own, con il contributo del MiBACT, Renato Ragosta, in associazione con Paola e Ricky Levi; distribuzione: Bolero Film; origine: Italia, 2015; durata: 85’

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