“X-Men: Apocalisse” di Bryan Singer


Dai profondi rimossi del passato giunge En Sabah Nu, un essere capace di trasferirsi dal corpo di un mutante a quello di un altro, assorbendone in questo modo i poteri.
Sepolto sotto le rovine di una piramide che gli è stata fatta crollare addosso da ribelli disperati che vedevano in lui nient’altro che un falso dio il cui unico scopo era governare il mondo, torna in quest’oggi di nuovi falsi dei da smantellare sotto i rintocchi funerei del movimento lento della Settima di Beethoven.
Cancellato dalla memoria storica del pianeta, ritorna come un incubo a occhi aperti, come vestigia di un passato senza la cui lezione è impossibile pensare il futuro, come segno di un conflitto irrisolto il cui monito deve essere appreso se si vuole pensare a un domani.

Sempre un futuro passato, in fondo, come il ricordo degli eventi della crisi missilistica cubana che Charles aveva cancellato dalla mente di Moira MacTaggert per preservare l’anonimato che sembrava, al tempo, condizione imprescindibile della sopravvivenza dei mutanti.

Come sempre l’epica singeriana si divide tra l’esigenza di ricordare e il bisogno di sperare, tra ieri e oggi, tra Storia e storie.
Il vissuto dei personaggi, cicatrice dolente delle contraddizioni del mondo che non li accetta e li teme, cerca un disperato equilibrio tra ricordo e utopia nel tentativo di capire quanto passato ci voglia per impastare i mattoni del futuro.
Così la storia di X-Men: Apocalisse trova i suoi poli poetici nel nord dei ricordi di Moira che vengono fatti riaffiorare dall’azione telepatica di Charles e il sud della Auschwitz sradicata dal corpo dell’immagine della memoria collettiva dall’azione magnetica di Erik. In una profonda confusione tra individuale e sociale, tra singolo e tutti che è la cifra più potente dell’intero progetto degli X-Men sia sulla carta forte degli albi di fumetti che sulla superficie durata dello schermo.
X-Men: ApocalisseCosì nelle spire di una narrazione che assume grandiosità dantesche e shakespeariane si affaccia, timido e potente, un controcanto sul potere salvifico del ricordo che placa e riempie di senso, dando forza (il ricordo della festa delle luci per Erik che riaffiora brevemente dalla memoria del primo film della trilogia) o serenità (quei pochi che Jean trova nella mente di Logan ad accompagnarlo fuori nella notte buia degli anni a venire).

Come nella precedente trilogia con il suo Conflitto finale (giustamente ignorato e considerato un mero incidente di percorso), anche Apocalisse segna un dispiego di mezzi visionari all’altezza di un epilogo di vaste proporzioni. Questa volta, però, in perfetta coerenza con un universo immaginifico che non vuole mai essere innocuo, non c’è fuga nell’individualismo mentre l’invito forte ad abbracciare la propria natura più vera anche se ci fa paura (un invito che dall’adolescenza – destinatario ideale del fumetto – si protende fino all’età adulta), rimane profondamente ancorato a un umanesimo capace di serena indulgenza di fronte alle contraddizioni del vivere.

Il racconto si impagina in questo modo sulle linee di una coralità a tratti stupefacente che al disegno mosso e colorato dell’arazzo unisce anche gli sbalzi dell’intreccio del tessuto in cui ogni filo ha senso di per sé, ma ne assume di nuovi, umbratili e cangianti, a contatto con tutti gli altri. Trionfo di una polifonia fitta d’ombre e sempre anelante la luce che trova nelle musica di Ottman (che come sempre firma anche il montaggio) un meraviglioso correlativo sonoro e architettonico.
Difficile dire quale segmento resti più nel cuore di altri. Difficile capire quale personaggio sbalzi meglio tra le linee di questa possente acquaforte. Il cast d’insieme è amalgamato con rara maestria e diretto con insuperabile rigore.

E sotto questo gioco mosso come un caleidoscopio, tra le mille forme e i mille colori delle schegge di vetro colorate dalla luce, prende corpo una commovente riflessione sul senso stesso della democrazia che è, prima di tutto, lo dice Charles nel suo rifiuto ostinato a cedere al potere, prendersi cura del più debole.
“Benvenuto nella mia casa” urla il mutante ad Apocalisse poco prima delle fiamme di fenice. E quella casa, di mille voci e mille drammi, di fiammelle langhiane che riempiono il vuoto di un universo insensato, è, a ben guardare, nient’altro che la casa senza porte della compassione.

 

 

(X-Men: Apocalypse); Regia: Bryan Singer; sceneggiatura: Simon Kinberg; fotografia: Newton Thomas Sigel; montaggio: John Ottman; musica: John Ottman; interpreti: James McAvoy (Charles Xavier / Professor X), Michael Fassbender (Erik Lehnsherr / Magneto), Jennifer Lawrence (Raven Darkhölme / Mystica), Oscar Isaac (En Sabah Nur / Apocalisse), Nicholas Hoult (Hank McCoy / Bestia), Rose Byrne (Moira MacTaggert), Tye Sheridan (Scott Summers / Ciclope), Sophie Turner (Jean Grey / Fenice), Olivia Munn (Betsy Braddock / Psylocke), Lucas Till (Alex Summers / Havok), Ben Hardy (Warren Worthington III / Angelo), Evan Peters (Peter Maximoff / Quicksilver), Kodi Smit-McPhee (Kurt Wagner / Nightcrawler), Alexandra Shipp (Ororo Monroe / Tempesta), Josh Helman (William Stryker), Hugh Jackman (Logan / Wolverine); produzione: Bad Hat Harry, Kinberg Genre, Hutch Parker Productions, The Donners’ Company; origine: USA, 2016; durata: 143’

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