Sex Education

Sono finiti i tempi in cui aveva un senso la massima proverbiale, che è stata anche titolo di un film, “niente sesso siamo inglesi”. Gli inglesi, ci dice Sex education , la nuova serie targata Netflix, fanno sesso, eccome! E ne parlano. In qualche misura ne parlano anche troppo, liberando il piacere dalla carica angosciante e, per questo eccitante, del tabù.
Ne parlano nei pub, certo, dove lo scorrere a pinte della birra riduce naturalmente l’attrito dei freni inibitori della conversazione. Ma ne parlano anche a casa, sui luoghi di lavoro e, last but not least, a scuola dove l’età della prima volta oscilla, con una certa serenità tra i quattordici e i sedici anni.
Il fatto che ne parlino non significa però che ne parlino nel modo giusto. Né che faccia bene tanto profluvio di parole.

 

Prendete Otis, ad esempio. Lui tra parole franche e senza infingimenti in fatto di sesso ci è nato. La madre, con cui ha un rapporto non facilissimo, è una terapista sessuale che non esita la mattina a chiedere al figlio se l’ultima masturbazione in bagno sia stata abbastanza soddisfacente. Il padre, da parte sua, vive fuori casa, dopo il divorzio cagionato dalla scoperta dei tradimenti consumati sotto il tetto coniugale, con dei pazienti, per di più. È, per amor di paradosso, terapista sessuale anche lui e di sesso ne parla e ne scrive con un’insistenza fastidiosa. Ma in lui l’aggravante è che costituisce, per il ragazzo, un modello imbarazzante di libertà sessuale che passa sopra le esigenze di tutti gli altri. Una forma di egoismo che fa male a un adolescente che vorrebbe, anche solo per un po’, essere il centro di attenzione di un genitore.

Nel delirio comunicativo del parlarsi addosso dei grandi, Otis soffre e non poco. Il troppo dire si traduce, nel ragazzo che ancora non ha sperimentato la sua prima volta, in una difficoltà a essere e, quindi, a fare. L’eccesso di comunicazione si ribalta così, per paradosso, nell’impossibilità stessa della comunicazione. Anzi il troppo induce quasi a una sorta di inefficacia dell’atto comunicativo. La parola, eccedente nel suo delirio di dare a ogni cosa un nome, si confronta, in questo modo, col bisogno cocciuto di un silenzio che è anche, dolorosamente, inabilità. Otis non riesce ad avere un rapporto sano col proprio stesso corpo perché lo conosce prima di tutto a suon di nomi e di definizioni. Gli manca il rapporto col mistero, la gioia di perdersi nelle sfumature semantiche che sappiano, però, dire quel suo sentire che è unico, come un’impronta digitale, e per questo, indicibile.

Di fatto, il paradosso di Otis è che è emblema e, al tempo stesso, riflesso speculare, della sua generazione.
Emblema perché sperimenta sulla propria pelle la difficoltà a definirsi che è comune a tutti a quell’età. Riflesso speculare perché i problemi con cui si confronta sono per certi versi opposti a quelli dei coetanei.
Mentre, infatti, lui soffoca nel troppo dire di una madre asfissiante e di un padre assente, gli altri ragazzi di Sex education sembrano essere piuttosto i figli eletti del mondo omologato dei social media. Immersi anche loro, quindi, in un delirio comunicativo, ma di una comunicazione di superficie, fondata sulla condivisione di poco o, addirittura, del nulla. Per loro il dramma è che sono educati a un vocabolario impoverito che per questo rende difficile confrontarsi con un mondo che avanza veloce e con un’interiorità che avrebbe bisogno di qualche sfumatura semantica in più per apparire più chiaro. Così ognuno si ritrova sempre più solo, incapace a capirsi e quindi a capire gli altri. I due estremi dello spettro conoscitivo si riducono quindi, nella comune propensione al chiacchiericcio, ad avere o troppe parole, come Otis, o troppo poche, come tutti gli altri.
Giocoforza, allora, che il ragazzo debba diventare il catalizzatore verso una medietas ideale. In lui però, la tensione verso al giusto mezzo, riposa anche nella novità assoluta di un dire che si fondi sull’ascolto. Otis, tra le troppe parole, sceglie quelle giuste perché, prima di dire, sa guardare. Non è un caso che sia in grado di dare saggi consigli solo se si pone a contatto diretto con la persona che ne ha bisogno. Metteteci in mezzo una porta, come nei confessionali della chiesa cattolica, ed ecco che l’esperimento fallisce. La comunicazione si fa vera solo se in mezzo non ci sono altri filtri se non quelli, imposti, della propria cultura e formazione.
Per Otis, insomma, vedere l’altro significa aprire le porte a una forma di compassione che non è mai identificazione nell’altro (e questo è un dettaglio assai importante), quanto riconoscimento catartico (e bellissimo) della sua magnifica alterità. Un discorso del genere, così moderno e nuovo, non sarebbe mai stato possibile, ad esempio, in America.

Quel che riesce straordinariamente bene al ritratto generazionale che vuol essere Sex education, è la descrizione di questa generazione che parla senza essere capace di ascoltarsi. Che vive la gioia di una sessualità disinibita e aperta a pratiche che fino all’altro ieri erano inconfessabili, ma che non sempre è capace di gestirne il piacere con la dovuta leggerezza.
Così questi ragazzi da High School che sono tendenzialmente veri, pur nella stereotipia imposta del genere della commedia che flirta a ogni passo con le maschere, sono perfetti esponenti di un gruppo sociale formato da individui che straparlano, ma sono essenzialmente soli, chiusi nel loro guscio di percezioni, incapaci a capirsi e quindi a viversi con pienezza quella libertà sessuale che hanno ricevuto in dono dalla generazione precedente, senza aver dovuto provare sulla propria pelle la fatica di strapparla a morsi da un prima più arcaico e più bigotto.
E questo diventa drammaticamente vero quando, abbandonati i lidi del puro piacere occasionale, ci si confronta col più grande mistero dei sentimenti, quello sì, un terreno scivoloso che coglie tutti drammaticamente impreparati e incerti.

Sex education comincia piccolo, seguendo il terreno già aperto dalla commedia goliardica di stampo americano. Tira fuori dal cappello situazioni in fondo anche abbastanza già viste (la tanto strombazzata apertura, ad esempio, con il ragazzo che simula un orgasmo obbligando la ragazza, dopo il rapporto, a chiedergli che fine abbia fatto lo sperma, non è inedita, come in molti hanno scritto, dal momento che l’avevamo già vista anni fa in apertura di 40 giorni e 40 notti), però man mano che avanza e che aggiunge personaggi, cresce e tocca nervi sensibili e scoperti. È sincera, soprattutto, pur se incline a cedere, dove possibile, a soluzioni più apertamente commerciali.
Nel far questo si avvale di un cast notevole soprattutto nei ruoli principali, con Asa Butterfield (che si conferma attore duttile e interessante) nella parte di Otis e Gillian Anderson in quelli della madre, con il suo accento inglese per nulla caricaturale.
Un bel risultato, insomma, cui sta già seguendo, per fortuna, una seconda stagione che chiuda almeno qualche conto delle tante cose lasciate in sospeso nel vorticoso, sensuale finale della prima.

 

 

(Sex Education); genere: teen comedy; showrunner: Laurie Nunn; stagione: 1; episodi prima stagione: 8; interpreti: Asa Butterfield, Gillian Anderson, Ncuti Gatwa, Emma Mackey, Connor Swindells, Kedar Williams-Stirling, Alistair Petrie, Mimi Keene, Aimee Lou Wood, Chaneil Kular; produzione: Eleven Film; network: NETFLIX; origine: Inghilterra, 2019; durata: 47’-53’ per episodio; episodio cult prima stagione: Episodio 5

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