Il racconto è la più grande delle magie. Di questo deve diventare consapevole Kubo, l’eroe di Kubo and the Two Strings che improvvidamente verrà distribuito in Italia con il funesto titolo Kubo e la spada magica che, evidentemente dovrebbe, secondo le intenzioni della distribuzione, avere un maggiore appeal commerciale.
Le due corde del titolo originale, sono quelle dello strumento musicale suonato dal piccolo protagonista come accompagnamento ai racconti che fa per strada, in un angolo della piazza del mercato, forse elemosinando così quel poco di riso che porta poi alla madre, chiusa in una grotta a fissare con sguardo inebetito il sole che cammina pigro in cielo. La donna sembra aver perso ogni cognizione della realtà che la circonda e Kubo deve amorevolmente prendersi cura di lei, unica famiglia che gli è rimasta.
Gli unici momenti di lucidità della madre vengono di notte, appena il sole scompare dietro l’orizzonte. È in questi momenti che, ripresa una parvenza di lucidità, la madre prende a raccontargli storie della sua origine e a fornirgli strumenti per cavarsela nei momenti di veglia, quando lei diventa misteriosamente assente. Qui apprendiamo di come Kubo sia figlio di un grande samurai che aveva osato sfidare il suocero, una sorta di arcaica divinità cieca, cercando per tutta la terra i tre pezzi di una magica armatura che l’avrebbe reso potentissimo, una spada indistruttibile (quella del titolo italiano), un’armatura impenetrabile e un elmo invincibile. L’uomo era proprio sulle tracce di quest’ultimo elemento quando il nonno di Kubo aveva scatenato contro di lui, grazie alle sue altre due figlie, un’offensiva possente che ne aveva segnato la sconfitta.
Le istruzioni date a Kubo per cavarsela di fronte a ogni avversità sono ugualmente tre e archetipali: non perdere mai l’amuleto a forma di scimmia chiamato dal piccolo Mr Monkey, tenere sempre indosso il kimono lasciatogli dal padre prima di morire e non andare mai in giro di notte, nel momento in cui si risvegliano dall’oblio anche le terribili zie, tanto potenti da poterlo fiutare immediatamente.
Alla proibizione di muoversi di notte che è un limite tipicamente favolistico corrispondono quindi due lasciti che sono al tempo stesso due chiavi di volta per muoversi nel mondo. Il kimono, simbolo paterno è un’eredità maschile che indica la strada della disciplina e della scaltrezza, ma è anche rimando al mondo umano e al senso di avventura, l’amuleto, figura materna, è invece legato alla magia e ai regni della notte.
Due lasciti, in fondo, che segnano un rapporto con le tradizioni dei due diversi rami familiari di cui il piccolo è il risultato, terza figura di un universo costantemente costruito su triadi. E tre sono, infatti, le corde dello strumento suonato da Kubo, mentre i due lasciti prenderanno a fine film la forma delle due corde del titolo originale e divengono le due chiavi di volta della narrazione. Altro che spada magica che, nel viaggio di scoperta che il piccolo deve intraprendere tramite il mandato della madre, viene conquistata e non più messa in discussione, già ad un terzo del film.
Del resto il nonno possente viene sconfitto non già dall’arma indistruttibile che nulla può contro l’immortalità, ma dalla magia stessa del racconto che è il senso stesso del nostro stare al mondo, finestra spalancata sull’eternità nel suo passare di bocca in bocca.
Kubo flirta così con temi di straordinaria importanza, lavorando costantemente sul mito e sulla trasmissione, sul valore degli affetti e sul senso reale di famiglia, sulla compassione e sull’elaborazione di ogni lutto. Lo fa in una chiave così adulta che potrebbe disorientare qualche bambino anche se gli ingredienti per tenere avvinto alla narrazione un pubblico bambino ci sono veramente tutti: dalla scimmia parlante che aiuta Kubo allo scarabeo samurai e alle figure di contorno del villaggio dove il piccolo vive che hanno una certa immediatezza.
Raramente un film di animazione si lega così strettamente al tema del lutto, raramente è concesso così tanto spazio alla corrispondenza d’amorosi sensi con il ricordo dei morti, vera figura protettiva contro la magia del regno della notte (altro che corazza impenetrabile). Ed è a questo ricordo che si legano alcune delle soluzioni visive più emozionanti: dalla processione di lampade dorate usate dai vivi per continuare a parlare con i defunti alla magica fila di aironi dorati in volo il cui canto è ancora racconto.
Perché in fondo è proprio il bisogno di raccontarci ad eternarci ed è questa la maggiore eredità che possiamo lasciare al mondo.
Frattanto all’arte degli origami in cui eccelle Kubo spetta il compito di diventare efficace correlativo visivo della reincarnazione dal momento che ogni foglio può assumere qualsiasi forma, scivolando dall’una all’altra in appena un rapido fruscio di carta.
Nel complesso il film, che si avvale in originale di un cast stellare la cui ricchezza si perderà anch’essa nella distribuzione italiana, soffre dello stesso difetto dei racconti di Kubo: è un po’ troppo elaborato e quindi pecca di qualche lungaggine comunque necessaria ai fini della restituzione di un mondo poetico vasto ed importante.
Ha però una fine ed è quella giusta, quella che ci riconcilia con la magia del ricordo e mette in pace ogni nostra pena.
(Kubo and the Two Strings); Regia: Travis Knight; sceneggiatura: Marc Haimes, Chris Butler; fotografia: Frank Passingham; montaggio: Christopher Murrie; musica: Dario Marianelli; interpreti (edizione originale): Art Parkinson, Charlize Theron, Matthew McConaughey, Rooney Mara, Ralph Fiennes, George Takei, Cary-Hiroyuki Tagawa, Brenda Vaccaro; produzione: Laika Entertainment; origine: USA, 2016; durata: 101’