Il cinema di Michaël Dudok de Wit (fino a questo punto confinato nello spazio ridotto del cortometraggio) è sempre stato un cinema di rapporti.
Rapporti in senso sentimentale, come nel pluripremiato Father and Daughter, ma anche di rapporti in senso conoscitivo con l’alterità, spesso identificata con un principio di opposizione apparentemente inconciliabile come in Le moine et le poisson.
Il cinema di Michaël Dudok de Wit è poi sempre stato legato al principio polifonico della caccia, con due voci (il principio dualistico è in lui trionfante visione del mondo) che si rincorrono continuamente, ma che possono, alla fine, incontrarsi solo nello spazio del trascendente, perché l’unità tra Io e Tu non può risolversi nel piano dell’esperienza empirica, ma può trovare soluzione solo nel momento in cui l’Io scende a patti con l’intuizione assolutizzante del riconoscersi nel Tu, come in un gioco di riflessi che è illuminazione che sconvolge la ragione.
Come nella filosofia orientale, il percorso di rispecchiamento tra Io e Tu (e quindi tra Io e Mondo) può attuarsi solo rompendo l’illusione solipsistica che ci porta a crederci vanamente unità separate. Io e Tu (ma anche Io e Natura, Io e Realtà) si scoprono essere espressione di uno stesso principio che di fatto non esiste. L’illuminazione, in questo modo, non è conquista, ma resa: il monaco cattura il pesce che ha predato per tutta una vita solo nel momento in cui rinuncia a rincorrerlo; si potrebbe anzi dire che è il pesce alla fine a catturare il monaco.
Ma come nella filosofia orientale, il percorso avanza nel senso della ripetizione cocciuta di un’azione che rompe la scorsa dell’illusione del sé solo dopo essere diventata ripetizione meccanica come l’ohm ripetuto sino all’insensatezza durante la meditazione.
In questo modo il principio di non narrazione del cinema di Michaël Dudok de Wit passa attraverso le dinamiche della ripetizione di uno stesso gesto in quadri di volta in volta differenti: il continuo ritornare della figlia dove la portava il padre, i tentativi di pesca del monaco o, anche, in La tortue rouge, i tentativi di costruire una zattera (o comunque di sopravvivere) del povero naufrago.
Azioni ricondotte a una ripetizione ostinata che sono il simbolo del nostro disperato approccio alla Verità, il tentativo di catturarla con il misero retino da pesca della ragione che si traduce, a livello visivo-narrativo, nella forma anch’essa musicale della variazione su tema (Corelli e la sua follia era il nume tutelare di Le moine et le poisson).
Sicché il movimento di La tortue rouge, che riporta con ardita scommessa questi principi nei termini estesi del lungometraggio, è esattamente quello ripetitivo della meditazione (e del respiro diviso in espirazione e inspirazione: altro meccanismo duale). Il naufrago cade dall’assurdo caos del mondo simboleggiato dalla tempesta, nel chiuso doloroso della consapevolezza della sua piccolezza e della sua infinita solitudine. Qui ripete più e più volte un percorso di esplorazione in ambiti altamente connotati da valori simbolici: la fenditura della roccia nella quale letteralmente rinascere (in un percorso che coinvolge dapprima il padre e poi il figlio), la foresta notturna e benigna della fatica quotidiana, il mare del richiamo all’altro e all’altrove, scommessa di un possibile ritorno, ma anche di avventura per il figlio che sogna il largo come le piccole tartarughine appena uscite dall’uovo. Poi ripete più e più volte un tentativo di evasione dall’isola con la costruzione di una zattera sempre più grande: segno tangibile di un ritorno al principio di civiltà frustrato dalla reale consapevolezza di non essersi mai realmente confrontato con la natura benigna dell’isola. L’Io, fedele all’illusione della sua esistenza separata urta con il principio irriducibile del Mondo che rifiuta di lasciarlo andare (per dove poi?) fino a che non giunga la consapevolezza che quella Natura da cui cerca di scappare è parte integrante del suo essere inseparato.
Solo quando l’uomo si arrende all’intuizione dell’altro, solo allora il velo dell’illusione si squarcia, il guscio della tartaruga si rompe e il principio di opposizione si ribalta in intuizione sapienzale di un’identità di opposti.
Tutto questo seguendo un tratto grafico di rara potenza evocativa (che tocca vertici di autentica poesia in alcune sequenze come quella dello tsunami), in un film che non va visto, ma meditato, respirando al suo ritmo e accettando di sciogliersi nella sublime sua semplice leggerezza. Un film cui ci si deve arrendere o si finisce nella trappola del monaco che cerca di catturare il pesce senza il lieto fine del trascendere i motivi stessi della caccia.
Altrimenti, nella logica dello spettatore (ahinoi, soprattutto occidentale) che non si pone nell’atteggiamento del monaco, il film apparirà lungo e noioso quando invece è solo estasi e abbandono.
(La tortue rouge); Regia: Michaël Dudok de Wit; sceneggiatura: Michaël Dudok de Wit, Pascale Ferran; musica: Laurent Perez Del Mar; produzione: Why Not Productions, Wild Bunch, Studio Ghibli, CN4 Productions, Arte France Cinéma, Belvision, Prima Linea Productions (animation); origine: Francia, Belgio, Giappone, 2016; durata: 80’