“Dorian Gray” di Oliver Parker

Il principio di piacere non si appaga della sua durata. Si spinge ansiosamente verso l’abolizione del momento che tutto brucia. Aspira, in vari modi, ad eternarsi nell’infinita ripetizione che non dia mai noia di se stesso.
Essere fuori del tempo è l’aspirazione di Dorian Gray in un’ansia di assoluti che fa a pugni col proprio cognome che, invece, è la stintura del compromesso. Affannato dall’idea di una vita che è beckettianamente nero chiara, Dorian rincorre il principio di piacere sempre consapevole che il piacere è una cosa e la felicità un’altra.
Lo guidano da una parte la consapevolezza che la “realizzazione” è una chimera che non ci è mai dato di afferrare e dall’altra che il vizio sa essere un bel passatempo per ingannare le ore. Ma non esiste niente al mondo di più difficile che descrivere con piena coerenza il principio di piacere. Per riuscirci compiutamente occorre riuscire a descrivere il piacere con la stessa voluttà che prova il personaggio che se ne abbevera ingordo. Occorre entrare nella sua pelle e sentirne il palpito sotto carne, irrefrenabile e potente. Perché se non si sente fino in fondo la vertigine della tentazione diventa poco credibile che un’anima candida possa soccombere al punto di vendersi perché il corpo possa continuare a godere. È per questo che in Wilde l’edonismo supera sempre ed in ogni punto l’impegno morale. La vendita dell’anima è gioco necessario al sostentamento della trama, ma quest’ultima si abbandona poi all’intarsio dell’art decò, è soppiantata dai tralicci di vite che nascondono la colonnina portante della bifora che affaccia all’esterno. Il principio di piacere è, così, descritto nel divertimento che non si prende mai troppo sul serio perché non ha niente a che vedere con la filosofia o con il vivere civile. Ed ecco allora che per lunghi capitoli i protagonisti diventano i tendaggi o la porcellana delle tazzine o l’affollarsi degli odori in una fumisteria: trionfo della sinestesia come via d’approdo ad un di più cui non si crede mai fino in fondo.
Fare un film su questo materiale impone, quindi, il ritrovamento di un equilibrio perfetto tra estetica, cinismo della ragione e godimento. I tre personaggi principali del racconto, a pensarci un momento, con Basil che incarna lo spirito del poeta che rappresenta il mondo così come lo sente (e non come lo vede), Henry che incarna la logica dell’aforismo spiazzante che fa tabula rasa dei valori costituiti e Dorian che fa della propria vita un’opera d’arte. Aggiungere la dimensione da morality play a questo apparato significa far ricadere il discorso nel gorgo delle convenzioni che condannarono Wilde al carcere di Reading. Anche se la tentazione è facile dal momento che poi, alla fine del romanzo, il quadro viene distrutto e tutto rientra nella mostruosa normalità del salotto aristocratico in piena decadenza (quindi il lieto fine è solo apparente).
Ed è questo il grande peccato di Oliver Parker: nel parlare del piacere adotta il punto di vista della fine del romanzo (con redenzione dell’eroe) e non quello wildiano che è esterno al romanzo anche se si riconosce, in modi diversi, in tutti e tre i personaggi che mette in pagina (uno e trino, insomma). Del resto egli stesso, al processo che lo vide coinvolto, ebbe a dichiarare che l’artista non ha convinzioni etiche.
Oliver Parker, che non ha evidentemente appreso abbastanza da quell’Importanza di chiamarsi Ernesto che mise in scena qualche anno fa, non abbandona mai il punto di vista morale, anzi lo instilla più volte nel suo stesso Dorian facendone il campione di un dibattersi tra le opposte ragioni del bene e del male. Sicché, nel descrivere il piacere cui indulge il proprio personaggio, il regista finisce per assumere una posizione giudicante: la droga di cui si serve Gray, la deprevazione che si concede, il sesso che esperisce in tutte le possibili varianti (sinanche quell’omosessualità che portò Wilde agli orrori del carcere) e anche la voluttà del delitto vengono sempre colti nella loro dimensione moralmente deprecabile. E non si riesce davvero a capire come un’anima pura come quella di Dorian ad inizio film non si avveda o finga di non avvedersi di come quel sesso e quel piacere siano solo maschere effimere che nascondono il decadimento dei corpi e delle anime.
Del romanzo wildiano, Parker prende la struttura, ma ne contraddice il senso man mano che va avanti. Gli interessano molto le descrizioni gotiche e le ricerca sullo schermo coadiuvato da un ottimo lavoro alla fotografia, ma si dimentica che il gotico in Wilde viene sempre spezzato dal dettaglio incongruo e dall’estetismo che nulla ha a che vedere con la situazione narrata. Gli piace declinare i suoi personaggi alla coniugazione di un horror cinematografico di buon livello, ma gli manca il coraggio per portare alle estreme conseguenze questa possibile direzione e, ogni volta che invoca il soprassalto di spavento sulla poltrona ritorna tremebondo al filone del film letterario nudo e puro.
Ne vien fuori un film spurio cui pesa la mancanza di incisività dell’attore principale (un Ben Barnes cui bisognerebbe spiegare che Dorian Gray parla di un quadro maledetto e non di una statua vivente) e la mancanza di estro in una regia che tende al piatto come l’elettrocardiogramma di un defunto.
Wilde è lontano anni luce.

 

 

(Dorian Gray); Regia: di Oliver Parker; sceneggiatura: Toby Finlay, dal romanzo “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde; fotografia: Roger Pratt; montaggio: Guy Bensley; musica: Charlie Mole; interpreti: Ben Barnes, Colin Firth, Ben Chaplin, Rebecca Hall, Emilia Fox, Rachel Hurd-Wood, Douglas Henshall, Caroline Goodall, Fiona Shaw; produzione: Ealing Studios, Fragile Films; distribuzione: Eagle Pictures; origine: Inghilterra, 2009; durata: 112’

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