Wilfred


 

Quando il Dottor Jekyll beve il filtro da lui stesso creato, non libera un mostro d’altri luoghi, libera, piuttosto, l’orrore sconosciuto che alberga nel chiuso della sua stessa anima.
Il lato animale prende, per brevi momenti d’ebbrezza e d’abbandono istintuale, il sopravvento sulla componente sociale e culturale dell’animo umano. Tutto quel che si vorrebbe fare viene fatto e non lasciato, incompiuto, a sedimentarsi nell’incubo che non mostriamo mai al nostro vicino di casa.
Mister Hide è il nostro doppio orrendo, la nostra vergogna più grande, il segno tangibile del nostro poter essere che chiudiamo sotto spesse coltri di buone maniere mandate giù a memoria da quando eravamo piccolissimi.
Ma nascondere questa parte di noi stessi senza essere in grado di accettarne le pulsioni che bussano perennemente alla porta del nostro Io cosciente conduce irreversibilmente ad un malessere cui stentiamo a dare un nome. E proprio questo essere senza nome del male che ci uccide dentro rende il tutto più insidioso e più doloroso.
Quando, all’inizio di Wilfred, serie americana FX a sua volta remake di una serie australiana del 2007, Ryan Newman tenta il suicidio inghiottendo pillole che non hanno alcun effetto perché sono un farmaco placebo, il suo tentativo è proprio quello di soffocare l’ansia del malessere.
Il Superego delle convenzioni sociali ha da tempo preso il controllo della sua vita. La sorella gli ha trovato un lavoro che non ama, la vicina di casa è una bellezza senza nome cui non sarebbe mai nemmeno capace di rivolgere la parola, l’altro vicino lo spaventa tanto che cambia strada solo a sospettare che possa passargli accanto.
Le convenzioni gli hanno costruito intorno un recinto da cui sente di non potere uscire e lui stesso si trova di fronte alla difficoltà di dover essere ciò che gli altri hanno progettato per lui senza mai chiedergli nemmeno un parere.
Soffocato dalle maschere delle convenzioni sociali, Ryan vive sulla sua pelle prima di tutto l’orrore del negare a se stesso i suoi bisogni di espressione. Il suo lato animale che marcherebbe volentieri un territorio da poter sentire come suo, bussa ad ogni momento alla sua porta, ma lui finge di non sentire.
La sua è una realtà votata all’isteria. Lo dimostra abbondantemente la cura maniacale con cui mette in scena la sua morte. Nella consapevolezza di aver delegato ad altri il controllo della sua vita (non ricorda più neanche bene quando), rivendica a sé almeno il diritto di scegliersi una morte.
Il lato beffardo è che anche questo diritto gli è negato. Sua sorella, colei che gli ha persino organizzato il colloquio del lavoro che dovrebbe accompagnarlo sino alla pensione, gli ha prescritto un medicinale fasullo con il quale è impossibile suicidarsi.
Il fatto che la mattina dopo il tentato suicidio Ryan veda il cane della vicina come un uomo in costume che gli parla è sintomo nevrotico. Il cane umanizzato rappresenta un Mister Hide che non prende possesso del nostro corpo, ma della nostra capacità di percepire il mondo. Wilfred, il cane, è la sfera istintuale cui Ryan non aveva prestato ascolto e che rivendica il suo essere nel modo più invadente. Espressione di un malessere, il cane è anche la cura a quello stesso malessere.
Wilfred fa quello che Ryan vorrebbe fare. Di più: Wilfred spinge Ryan a fare quello che, in effetti, vorrebbe fare. Come animale domestico (quindi in parte ricondotto al dover essere sociale di ciascuno di noi, ma sempre e comunque, perdonabile quando decide di mordicchiare la copertura del divano) il cane della vicina non chiede scusa del suo essere e non si pone il problema del dover essere come qualcun altro ci vuole.
La sua libertà agisce da pungolo su Ryan obbligandolo ad essere come il cognome stesso vorrebbe un Newman, un uomo nuovo.
La dimensione domestica del cane (che altro non è che un vero e proprio oggetto tranfert), mantiene il Mister Hide di questo racconto nei limiti di una percezione di legalità. Ci sono cose che vanno fatte, altre per cui bisogna comunque chiedere il permesso.
In effetti quel che maggiormente Wilfred insegna a Ryan è il cominciare a provare gusto per la vita che si vive. Un insegnamento che è un percorso, abbastanza gradito al pubblico visto che la serie accede, mentre scriviamo, alla sua terza stagione.
Il prodotto televisivo nasce sul solco del politically uncorrect che tanto piace all’America di oggi. Vi si parla di sesso, di droga, di illeciti con estrema libertà perché la leggerezza dello sguardo del cane mette alla berlina la tenuta della nostra stessa vergogna.
La dinamica è quella del Buddy movie con un Jason Gann estremamente a suo agio nella tenuta del cane e un Elijah Wood a dir poco perfetto nei panni troppo stretti di Ryan. Il suo lento spogliarsi dei tabù più assurdi sui quali costruiamo le nostre piccole vite è ad un tempo avvincente e divertente: pregio enorme per una serie nata piccola, ma non priva di ambizioni.

 

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