Adamo, cacciato dal paradiso terrestre insieme alla sua Eva, si aggira spaesato con un peso che gli grava sulle spalle e gli schiaccia i passi al suolo.
Eppure il mondo resta quello di prima: la terra è sempre verde e gli alberi e gli animali cui ha dato un nome sono ancora lì. Forse adesso solo un pochino più pericolosi.
A essere cambiato, invece, è proprio lui e, quindi, è cambiato più di tutto il suo modo di guardare. Non ha più l’ingenuità di un tempo, ha perso leggerezza, ha smarrito la strada dell’incanto e adesso un sentiero tutto nuovo da percorrere con nuovi piedi non deve semplicemente cercarselo, ma costruirlo, con il sudore sulla fronte.
A guardare Miss Pererine – La casa dei ragazzi speciali, si ha quasi l’impressione che Adamo viva ancora oggi e si chiami Tim Burton. La sua Eva è affascinante, bravissima, capace di mangiare con la sua presenza ogni inquadratura e di cognome fa Green, il colore della speranza.
Come Adamo, anche Tim Burton ha perso per strada la naïveté dei suoi primi giorni. Il suo sguardo si è sporcato a contatto con esigenze nuove e il suo modo di filmare ha, di conseguenza, perduto quel candore che era quello di un Edward mani forbice o dello spiritello porcello che abitava gli incubi di Beetlejuice.
Un percorso non semplicemente di crescita, ma di uno sguardo che pian piano si approfondisce che era cominciato, per sommo paradosso, già nel suo più immacolato capolavoro, quel Big Fish che la critica sembra ormai considerare come una sorta di canto del cigno dell’autore di Burbank.
Solo lì si respira ancora, dicono in molti, quello spirito affabulatorio, quella voglia di cantare la magia e la malia del surreale con intatto spirito infantile. Dimenticando spesso, nello scrivere gli epitaffi a quel film mirabile, che affianco al meraviglioso Edward Bloom che vive estasiato in un mondo tutto suo, c’è la grigia identità di Will, suo figlio, che con fatica, e solo sul letto di morte del genitore, arriva a comprendere come dietro ad ogni storia del padre ci sia un vero che brilla di una luce solo apparentemente meno luminosa.
Di questa storia dolente di un bambino che pian piano impara a diffidare delle fantasie di un adulto perché il mondo fuori della favola è grigio ed ingrigisce, c’è eco anche in Miss Peregrine.
Il nonno del protagonista, Jacob, racconta delle storie al nipote che riconosce in qualche modo uguale a sé, ma il ragazzo è tentato troppo presto dalla semplicità di quel terrestre che ha perso per strada il paradiso e per un po’ la parabola del nuovo film è la stessa di Big Fish con la guida (quasi) post-mortem dei vecchi sui sentieri di favola del mondo.
La differenza rispetto al vecchio capolavoro è che in Miss Peregrine il magico c’è, eccome, ed ha la forma di un giardino con villa dove il tempo si è fermato e i bambini speciali vivono ripetendo lo stesso giorno all’infinito da più di settanta anni: l’incubo avverato del museo a cielo aperto.
E questo museo che di notte dorme e fa brutti sogni e non è certo quello di Una notte al museo (1 o 2, fate voi che per noi è lo stesso) ha le siepi potate da un Edward, i bambini di circo di Big Fish, i mostri tristi di Frankenweenie ed è minacciato dagli stessi scheletri nell’armadio di Mars Attacks e Beetlejuice.
Davvero la storia di Miss Peregrine è tra le più intensamente burtoniane di tutto il cinema recente. Ma a girare il film non è più quel Tim Burton, ma quello che, con la sua Eva, ha lasciato il paradiso e con i grandi occhi nuovi di Big Eyes guarda il suo cinema diventato materia di museo e lo contempla, con lo sguardo freddo del turista che ha pagato il biglietto.
Questo sguardo sdoppiato, da un certo punto in poi, diventa il motivo di fascino di un’operazione che non è semplicemente nostalgia. Miss Peregrine ha piuttosto la grandiosità morente di un autore che stenta a riconoscersi e fa di questa sua fatica materia di canto e di poesia.
Un film che sbatte contro la maniera e invoca una sua autonomia da tutto, perennemente in cerca di se stesso senza cedere a nessuna delle possibili lusinghe che minano il terreno come sirene pronte ad incantare.
Viene fuori da un romanzo, primo di un ciclo, ma rifiuta la strada aperta al sequel e chiude tutti i conti della narrazione con un finale spericolato che è la sua parte forse peggiore perché la storia e le motivazioni sono inciampo al desiderio di sognare.
Sembra essere un ritorno sui suoi passi, verso quel cinema che l’aveva fatto amare, e invece scava un solco per contemplarsi allo specchio e scoprire, nell’immagine riflessa, prima di tutto le rughe.
Punta sul digitale, ma appena può cerca le animazioni alla Harryhausen.
Miss Peregrine è un film denso e bello. Lo è non malgrado le incertezze e i salti di tono, ma proprio in virtù delle sue imperfezioni che rivendica. E colpisce per il suo rifiuto costante a cercare la maniera proprio dove sarebbe più facile trovarla.
Assembla un cast elegante soprattutto nelle parti più piccole (alcune usate un po’ troppo al di sotto delle sue possibilità) e sballa probabilmente proprio nelle figure maggiori: Samuel L. Jackson che non trova la sua strada grottesca alla Micheal Keaton, Judi Dench che appare che quasi non la vedi.
Un film che carica della sua perdita di innocenza il povero Jacob, Asa Butterfield, altrove spesso di abbagliante bravura che qui deve assumersi il ruolo di raccontare una perdita di spontaneità che è quella del suo gesto, ma anche dello sguardo che lo ritrae e che in lui deve in qualche modo immedesimarsi.
Manca in tutto questo Danny Elfman. Altro segno di un passaggio di consegne che ci porterà, nei prossimi film, un regista, speriamo, finalmente rinnovato.