Rogue One
In attesa di Andor, prequel a Rogue One, vale forse la pena ritornare a guardare il film di Gareth Edwards del 2016, tenendo sempre a mente quelli che sono i paradossi della critica ai tempi del digitale.
All’uscita dell’Episodio VII di J.J. Abrams, infatti, si scatenò un peana delle magnifiche sorti e progressive che ridusse quasi al silenzio quei pochi che avanzavano il dubbio di un deleterio effetto fotocopia rispetto al capostipite assurto ormai al rango di feticcio intoccabile.
Oggi, invece, l’uscita di Rogue one è salutata da un coro altrettanto fragoroso di entusiasmi che a suon di confronti più o meno sensati ridimensiona i toni di quanto scritto poco più di un anno fa. Ne viene fuori, leggendo i commenti, l’immagine di un Episodio VII sostanzialmente fallito e, in generale, assai poco efficace.
Scrivere a caldo di un nuovo film del franchise di Star wars è diventato davvero così difficile? L’orda agguerrita dei fans spaventa così tanto il critico da rendergli difficile trovare il modo di cavalcare l’onda del consenso digitale?
Fatto sta che si leggono oggi, a distanza temporale, critiche più serene e meno modaiole al film di Abrams e Rogue one finisce per essere promosso dai più soprattutto in virtù del confronto con il film precedente e assai meno per i suoi autonomi conseguimenti estetici.
Peccato perché l’opera di Gareth Edwards è qualcosa di più di un semplice spin-off e rivendica ad ogni passo, con un certo orgoglio e senza troppa presunzione, la sua dimensione altra rispetto alle dinamiche della saga madre.
Anzi, non è difficile affermare che il regista, che entra nell’universo espanso del mito con la stessa spavalda leggerezza di toni che aveva avuto Lucas quando nel lontano 1977 aveva messo mano alla sua creatura più longeva, raccoglie il guanto della sfida di non sovrascrivere sul mito (come vorrebbero, in fondo, i fans più oltranzisti e oscurantisti), ma di porsi, invece a margine.
La contiguità temporale con A new hope diventa, nelle mani capaci di sceneggiatore e regista, prima di tutto possibilità di una contiguità di sguardo. Rogue one non vuole essere una rilettura in filigrana del testo che gli fa da modello, ma aspira, piuttosto a circoscrivere il motivo della sua stessa esistenza a margine di quel testo. La sua azione rispetto all’universo lucasiano non è centripeta, ma centrifuga. Parte da un nocciolo scovato all’interno della Bibbia lucasiana per esplodere in mille schegge di immaginario che si dilatano nello spazio e nel tempo di un’esistenza tendenzialmente autonoma.
Se A new hope è il Big Bang di un nuovo immaginario, Rogue one è quell’operazione di raffreddamento che dall’energia conduce alla materia e ai pianeti. E questa sua posizione periferica rispetto al centro è rimarcata nella dimensione marginale di ogni personaggio: dell’aspirante jedi cieco che sostituisce alla spada laser il bastone di legno delle arti marziali, al pilota che si imbarca in missioni suicide senza la consolazione di un Millenium Falcon.
La marginalità diventa anzi emblema di un percorso narrativo che avanza per rimandi inaspettati. Ad altri film e ad altri eroi si demanda il peso della saga, qui ci sono personaggi che sono appena carne da cannone votata al sacrificio per far avanzare altrove la possibilità di una speranza. Eppure questa carne da cannone rifiuta di scendere a patti con l’ingombrante necessità di fare da sfondo all’azione principale che resta nel futuro non visto ma conosciuto dal pubblico. Cerca piuttosto una sua ragion d’essere che non è nell’azione principale, ma in se stessa. E trova una sua bellezza in personaggi per una volta costruiti con senso di misura, con motivazioni credibili e con sulle spalle il senso di un destino.
Così, dopo che son passati i primi minuti di proiezione, dopo essere stati sbalestrati con insolita irruenza in mille scenari e mondi diversi, tutti ripresi dall’universo lucasiano (in perfetta coerenza con gli scenari moltiplicati dei primi tre episodi) lo spettatore comincia a scoprirsi affezionato a questa giovane eroina che, riaccesa di nuova speranza, cerca di riabilitare il padre costruttore della Morte nera o a questo capitano che ha una missione ma sufficiente umanità da capire quando essa diventa contraria a ogni principio, o, ancora, a questo pilota imperiale che scopre, in coscienza, una personale possibilità di riscatto.
Questa sporca dozzina respira di un’umanità credibile che permette all’azione non solo di essere godibile, ma gli dona un senso e un perché.
Motivi che davvero fanno uscire Rogue one dal semplice modernariato hypster a apre le strade al cinema che vale davvero la pena di vedere.
(Rogue one: A Star Wars Story); Regia: Gareth Edwards; sceneggiatura: Chris Weitz, Tony Gilroy; fotografia: Greig Fraser; montaggio: Jabez Olssen; musica: Michael Giacchino; interpreti: Felicity Jones, Diego Luna, Mads Mikkelsen, Alan Tudyk, Ben Mendelsohn, Forest Whitaker, Donnie Yen, Jonathan Aris, Riz Ahmed, Genevieve O’Reilly, Jimmy Smits; produzione: Lucasfilm, Walt Disney Pictures.; origine: U.S.A., 2016; durata: 133’