Chiediamo scusa in anticipo, ma, per parlare nel miglior modo possibile di Endgame, tocca necessariamente partire dalle ultime inquadrature, per cui, chi ancora non ha visto il film e teme come un’ordalia ogni forma di spoiler, farà bene ad astenersi dal leggere quanto segue, anche se faremo ogni sforzo in nostro potere per non anticipare troppo o fare nomi e cognomi che possano in qualche modo guastare il piacere della visione.
Fatta questa debita premessa, accade, in Endgame, che ci si confronti con l’atto conclusivo di non pochi percorsi eroici. Di questi, uno ha, forse, più degli altri valore esemplificativo.
Vi vediamo un (super)eroe ormai invecchiato, sul finire della propria vita, che, in gesto estremo che non sarebbe stato male in un vecchio western di quelli buoni, passa le consegne delle propria mission a un più giovane apprendista. Lo fa dopo aver vissuto una vita appagante, ritirata dai conflitti, da uomo semplice dopo aver tanto combattuto. Il sogno, certo, dell’eroe senza macchia che ha diritto a una propria pensione, a un proprio angolino di mondo. Proprio, in fondo, come Thanos che, compiuta la carneficina che aveva sempre sognato, si ritira a vita privata in una delle scene più dense e belle del film.
Orbene, alla domanda posta dalla giovane recluta se l’eroe abbia voglia di raccontargli qualcosa del proprio passato, questi risponde, volgendo gli occhi verso un oltre dreyeriano fuori dell’inquadratura, con delicato pudore, che preferisce senz’altro di no.
Una chiusa perfetta. O almeno così sarebbe stato se i registi non avessero pensato di chiosare il tutto, in perfetto spirito da didascalia, con un’ulteriore scena: un flash-back, anch’esso in fondo ellittico, che racconta l’idillio del personaggio col proprio passato.
La domanda sorge, a questo punto, spontanea: ce n’era davvero bisogno? Se il campo era già così pieno di delicato sentimento e incantata suggestione, c’era davvero necessità del controcampo a mostrare quello che è già tutto negli occhi di chi sogna e, reticente, allontana per noi dallo sguardo?
In Endgame pare proprio di sì e, al netto del racconto, i conti si chiudono con un’inquadratura di troppo che sta lì nemmeno a spiegare, ma a concedere al pubblico quel che in fondo aveva voluto sin dall’inizio: vedere.
Endgame è tutto un po’ così: con un’inquadratura d’eccedenza lasciata per compiacere le aspettative del pubblico.
In fondo, giova ammetterlo, lo fa in rispetto alla regola non troppo scritta del genere cinecomic che pretende un didascalismo quasi necessario quando la serialità è vasta. Eppure qui, senza inficiare davvero la godibilità di un film che scorre via leggero anche grazie al continuo rimodularsi di locations e generi, si ha quasi l’impressione che quel “di più” faccia a pugni con la tentazione per la possibilità di quel film di altre dimensioni e altro spessore che in fondo prudeva sulle dita di registi che sanno il loro mestiere e lo fanno pure bene.
Forse perché in Endgame, che prende da subito direzioni inusuali ed esplora possibilità inattese, la dimensione concettuale (implicita e conditio sine qua non dei film che flirtano con paradossi temporali) si sposa male con l’eccesso di dettaglio che deriva dal dover spiegare troppo le emozioni provate dai propri eroi (sta proprio qui l’incaglio!). Forse perché Infinity War aveva il pregio, nella più perfetta fusione tra narrazione e senso del ritmo, di metterci di fronte a uno sviluppo, mentre qui c’è l’impaccio della conclusione che delude sempre rispetto alle premesse. Fatto sta che il film, caleidoscopico e rutilante, divertente e commovente, piacevole e ben calibrato, fondato sull’alchimia dei personaggi ben più che sulla precisione della narrazione, soffre un poco del suo bisogno di non disattendere troppo le esigenze eterogenee di una schiera di fans ugualmente eterogenea nel suo nutrire affetti diversi per personaggi diversi.
A chiusura di conti (e sta qui un non piccolo pregio) quasi tutto torna tranne la complessità del paradosso temporale disatteso (non pochi universi paralleli possono sorgere dal passaggio del Thanos del passato nel mondo del futuro, come è strano che il tassativo divieto di modificare quanto è stato scenda a patti con un eroe che in quel passato va addirittura a viverci, terminata con successo la sua quest), eppure un poco si sente l’eccesso di un meccanismo narrativo che ha bisogno di cadere nel daja vu dell’epica battaglia finale che deve durare quarantacinque minuti per forza anche se in essa non succede quasi nulla sino alla fine, oltre che botte da orbi e suon di esplosioni. E questo un poco spreca i momenti veramente densi dell’altro film possibile: quello degli incontri, degli scambi delle possibilità che non sono più appannaggio del genere cinecomic ma stanno in altri lidi: il western, appunto, ma anche i film familiari o le commedie (per inciso: i momenti in assoluto più godibili).
Sarà anche per questo che la sequenza titoli si chiude con soli tre rintocchi di campana. L’epica avventura che riannoda ventidue film del MCU si è davvero conclusa. Nell’unico modo con cui poteva concludersi, oltretutto. Ora, forse, è tempo di lasciare lo sfarfallio dei vasti affreschi crossmediali, avventurosi e straordinari, e tornare, magari anche solo per un po’, al più semplice, ma ancora intramontato semplice Cinema.