Anche in programmazione nelle sale italiane.
Unico film italiano in concorso nella sezione Giornate degli autori alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2020, Spaccapietre dei fratelli De Serio si svolge a cavallo tra mondi e tempi diversi. Proprio per questo, forse, la sua cifra distintiva sta nell’indeterminatezza, nella sovrapposizione e nell’incertezza dei confini tra una storia classica, che aspira ai dilemmi scolpiti della tragedia greca e il bisogno di una riflessione contemporanea.
Al centro di tutto sta una riattualizzazione del vecchio schema di un capolavoro come Ladri di biciclette di Vittorio De Sica.
In entrambi i titoli abbiamo, infatti, la rappresentazione di un rapporto padre-figlio complicato dalla perdita del lavoro subita dal genitore (nel caso del film più recente ricondotta a un mitico incidente sul lavoro che ha privato il padre della vista da un occhio). In entrambi i titoli, la ricerca di una nuova occupazione determina le condizioni per la scoperta da parte del piccolo dell’umanità piccola e, in fondo, fallace dell’adulto. Entrambe le pellicole, infine, definiscono un’autentica discesa agli inferi nel ritratto di un’Italia contemporanea dominata dalla regola dell’Homo homini lupus in cui il bisogno di sopravvivere, anche col più umile dei lavori, non permette il definirsi (per condizioni storiche ovviamente differenti) di uno spirito di solidarietà di classe capace di garantire la possibilità di una rinascita autentica.
Nel caso di Spaccapietre questa realtà è resa ancor più drammatica dal contesto sociale che vede svilupparsi il racconto: quello dei raccoglitori di pomodori, la manodopera più sfruttata e meno in grado di avanzare richieste, fondata com’è prevalentemente sull’illegalità che dà spazio a fenomeni di capolarato.
La visione di questa umanità avvilita e vilipesa cui padre e figlio devono adeguarsi dopo la morte della madre che rappresentava l’unica fonte di sostentamento della piccola famiglia e dopo che altri tentativi di trovare un’occupazione meglio tutelata non sono andati a buon fine, definisce immediatamente lo spazio di un fecondo urto dialettico con l’atemporalità della storia umana dei personaggi messi in scena e il contesto che la ospita. La vocazione allo spaccato sociale ingaggia così un vero e proprio braccio di ferro col bisogno di astrazione dell’archetipo secondo una direttiva che era, invece, sostanzialmente estranea al capolavoro di De Sica.
Da un lato abbiamo, quindi, la descrizione accorata e sensibile del contesto familiare che la perdita della madre costringe a una totale riequilibratura dal momento che a inizio film sembra sia il piccolo a prendersi quasi cura del padre e non viceversa. Basti pensare, in questo senso, al non piccolo dettaglio della prima scena del film in cui il bambino pretende di avere una sorta di terzo occhio grazie al quale gli è possibile seguire gli spostamenti della madre sull’autobus e che in qualche modo va a compensare quell’occhio del padre che deve essere bagnato con gocce magiche e medicamentose, per rendersene compiutamente conto. Una complessità relazionale che non pregiudica minimamente l’affetto che il figlio prova per il padre visto che dichiara a più riprese che, da grande, è suo desiderio fare il paleontologo: una professione affine, in fondo, a quella di spaccapietre del padre, ma che ne rappresenta al tempo stesso un superamento anche nella gerarchia del prestigio sociale, dal momento che la roccia viene rotta per scoprire al suo interno il ricordo del passato, la traccia delle razze estinte degli amati dinosauri.
Dall’altro lato abbiamo invece l’attenzione rivolta verso uno spaccato sul mondo del lavoro dei raccoglitori di pomodori impietoso e doloroso che ci obbliga, come spettatori, a scendere a patti con l’evidente rimozione che applichiamo nei confronti di questa vera e propria piaga sociale. La dimensione concentrazionaria dello spazio narrativo diventa così prigione per lo sguardo nella quale si rinchiudono i due personaggi e dalla quale non possono forse più uscire. Ma è una prigione in cui si confondono i confini tra carcerieri e vittime, tra aguzzini e sfruttati perché la miseria dei secondi getta un’ombra fosca sull’apparente privilegio di potere dei primi.
In quest’universo la presenza di padre e figlio agisce così da detonatore per una presa di coscienza che è anche politica, mentre il finale avanza verso le tinte accese della tragedia (per chi scrive la parte meno convincente di un’opera peraltro ambiziosa e spesso molto riuscita).
Spaccapietre è, per questo, forse meno convincente di Sette opere di misericordia, ma si avvale di uno splendido lavoro attoriale in cui Salvatore Esposito si rivela attore sensibile e coraggioso, mentre Samuele Carrino è notevole scoperta.