Ci sono poeti che in qualche modo “impongono” una visione del mondo.
Per loro il verso è marmo, da modellare con martello e scalpello e poi da levigare con pazienza, nella sua forma piena, lucida abbastanza da abbagliare.
Per loro scrivere ha un peso specifico fatto di scatti lapidari e ogni rigo si porta dentro (e porta addosso a chi legge) l’impressione, non solo che sia l’unico possibile, ma anche che sia l’ultimo e che dopo c’è un “non più oltre” che chiude i conti anche se non dà risposte certe.
Ci sono poi poeti che, invece, “suggeriscono”.
Per loro il dialogo col lettore è tutto un intessersi di suggestioni piccole, di versi ricamati con sapienza aracnide, di piccole epifanie che si schiudono (e ci schiudono) con inesausta dolcezza.
Si tratta di una poesia detta a mezza voce, discreta, che quasi chiede scusa del suo rompere così il silenzio, ma che resta consapevole della sua implicita importanza.
Chiede le stesse cure di chi scrive sfidando la pietra, ma ha piuttosto la pazienza del filare e la gentilezza dei modi garbati di una persona che sa ascoltare prima di parlare.
Così è la poesia di Lorenzo Ciufo: una poesia di tessuti damascati, una poesia che accarezzi morbida, sentendone sotto le dita la trama profonda e l’insospettata precisione in rilievo. Una poesia in cui percepisci, negli amati endecasillabi quasi nascosti nella libertà del verso, un’inesausta nostalgia della metrica tradizionale che magnifica il suo bisogno segreto di musica. Soprattutto una poesia che intesse un dialogo profondo col proprio lettore, esortandolo ad andare oltre la posizione supina di chi si limita a dar voce e ritmo a un suono immaginato da altri.
Lo si capisce sin dal primo verso che è esortazione e invito:
Non accendete luci per favore.
Un endecasillabo, appunto, che chiede, nel verso, buio e silenzio. Non proclami, quindi, né dichiarazioni di poetica, piuttosto un verso che si confonde nel tutto bianco della pagina, e che più che guardare con sgomento o timor panico, il silenzio che lo precede, lo vede piuttosto come condizione essenziale del poetare. Perché il silenzio viene prima del suono, come il buio è accoglienza della luce.
L’invito a entrare in una stanza tutta per sé è, quindi, che si fa invito al tacito rispetto di una condizione esistenziale che chiede comprensione:
Non ne accendete: al buio vedo meglio.
In queste poche parole già leggiamo l’umiltà e l’ammissione di un limite che può diventare, se solo lo vogliamo, un punto di forza, leva possibile per un percorso di crescita interiore che cambiandoci, può anche ambire a cambiare il mondo nel quale viviamo.
Se scrivo nel buio, la mano è più libera
sul foglio, dove le righe non tengono
e il campo s’apre senza confini,
come se tutto bianco.
Una vera e propria vertigine leopardiana, insomma, che non ha più nemmeno bisogno della siepe per spalancarsi all’intuizione di un infinito che è tutto chiuso nella fantasia immaginante dell’io lirico.
Servono infatti occhi per discernere?
si chiede Ciufo sapendo che è proprio questa la domanda necessaria, ancorché retorica. Non a caso di foscoliana memoria, con tutto il suo carico di rimandi agli amorosi sensi che illuminano la vita:
Mi basta la memoria, quel fermo immagine.
Come legno di rovere imbevuto.
Perché è nel passato, agli occhi del ricordo, la prima possibilità di cominciare a capire. Una consapevolezza, questa che fa di questo libro prima di tutto un libro di radici e di memorie da cui è necessario partire se davvero si è in cerca di futuro.
Un futuro da indovinare senza fretta, con l’occhio abituato all’oscurità della condizione esistenziale, ma che si può toccare con le mani, a tentoni, come fanno i ciechi che, proprio perché non vedono, forse, vedono meglio. Suggestione arcaica, quest’ultima, che viene dal mito ellenico, da quel passato che respira nel paesaggio del basso Lazio, terra di confusione tra la Grecia che premeva da sud e da quella Roma che ne avrebbe preso il posto.
Ulisse, già a Itaca, è perplesso:
è quella la sua terra?
Quelle le bianche pietre, quelle
le sabbie, asciutte, calde, nelle unghie,
a grani nella congiuntiva?
Riferimenti culturali, quelli che impreziosiscono le liriche, che stanno discreti in un versificare leggero, a caccia di un quotidiano che confina con la banalità del vivere, ma ha, in realtà, tutto il senso di una cultura che non ha ancora reciso del tutto i legami con la terra. Un mondo fatto di piccole cose, di momenti semplici, in cui si mangia ancora mettendo sulla tavola cibi ancorati ai cicli stagionali e in cui lo stesso riunirsi intorno a un tavolo ha il sapore di un rito antico, non ancora fagocitato dalle frette cittadine e della corsa forsennata del mondo moderno. Un mondo in cui ci si può, volendo, dividere il pane o l’acqua o, forse ancora, un bacio.
In questo modo l’inattualità del riferimento culturale diventa uno con l’inattualità del mondo dei padri, mentre la silloge si colloca al confine tra quello e la realtà dei nipoti, quando l’io lirico non può fare a meno di interrogarsi sul significato dello scoprirsi genitore nella funzione di un passaggio di consegne tra radici e foglie. Di qui anche il senso della dedica al padre, mentre la citazione pasoliniana che apre le danze (discrete davvero come pavane) rilancia al presente anche la memoria del passato. Perché quel che conta non è aver amato, ma amare tuttora, come è necessario non smettere di conoscere arrendendosi alla sola consolazione dell’ “aver conosciuto”.
E così le liriche si riempiono di
…valigie e borse alla rinfusa
e di
…jeans un po’ consunti
laddove le ombre fuggitive delle nuvole nel paesaggio brullo dei monti vicini al mare diventano anche immagini di una giovinezza forse mai perduta veramente, forse ancora viva.
Come se tutto bianco è, quindi, senza che tu te lo aspetti, un libro piccolo nel quale perdersi. Ed è anche per questo che l’autore evita la tentazione di dare un titolo alle varie liriche che lo compongono, come a voler lasciare al lettore la possibilità di smarrirsi nei sentieri della propria memoria che è tanto simile eppure diversa a quella di chi scrive.
Sta tutta qui la bellezza discreta di un libro che si scopre un po’ per volta e poi, come le cose migliori della vita, non ti abbandona più.