Quel che colpiva della poesia di Sandra Cervone, a partire dagli esordi di Andromaca e le altre fino all’interessante Di petali la luna e che in parte si ritrovava anche nelle ultime esperienze legate al mondo della prosa e pubblicate all’interno della casa editrice deComporre (parliamo di Oltre – Racconti del probabile e Come una conchiglia), era la capacità straordinaria della scrittrice di intessere versi con la stessa perizia di una fine cesellatrice.
A volerla dire tutta, la prima poesia di Sandra Cervone è un picchiettio di scarpette di danza sulla pagina bianca, un complesso ghirigoro d’inchiostro tessuto tra sete e pelli con la pazienza di chi disfa la notte il lavoro del giorno, facendone sogno, ricordo e fonte inesauribile di canto. L’io lirico, così, si ripiega su sé stesso contemplando la sua stessa sofferenza con commosso incanto. E la parola, che è prima di tutto segno sulla pagina, vera e propria ferita d’inchiostro, invoca nel lettore quell’unica cosa di cui ciascuno di noi ha bisogno: compartecipazione. Una ricerca di autenticità che si ritira, straziata, quando l’altro cui si rivolge non ha orecchie abbastanza tese per intenderne il sussurro.
Non che queste qualità manchino all’interno di Canto rupestre, ma si ha come l’impressione che esse scendano quasi in secondo piano rispetto alla novità di un verso improvvisamente sonoro, tondo e ricco di rifinite asperità. Un verso non più levigato in onde di senso (e di sensi: per la Cervone la femminilità del canto è gesto materno e al tempo stesso di amante), ma spezzettato e rilanciato come una voce rifratta (appunto) tra gole montane. Un verso che smette quel chiedere dimesso di chi non ha sicurezza della propria voce, ma che impone la sua presenza con quella forza e quella risoluzione di chi ha capito una strada e l’ha alla fine intrapresa in barba a quel giudizio degli altri che le prime racconle ancora tentavano di blandire.
L’insistito uso dall’apostrofe in molte delle liriche che compongono Canto rupestre ricolloca al centro del discorso poetico di Sandra Cervone l’Altro. Solo che questa volta l’alterità non viene semplicemente vista come un’entità insensibile e sorda alle esigenze di un io poetico bisognoso di ascolto, ma come nemesi necessaria di un percorso di auto-individuazione lirica. Nell’altro Sandra Cervone scorge un principio di opposizione entro cui riconoscersi e non un’individualità aliena da cui essere riconosciuta. Il rapporto dualistico che, nei primi libri, era ancora un frangersi inconciliabile tra tesi e antitesi (dove la tesi era il dirsi e l’antitesi il rifiuto dell’altro a un ascolto reale), si riequilibra all’interno di Canto rupestre a favore di una sintesi nuova che rivendica la centralità di un nuovo atto (auto)conoscitivo. E l’angoscia del silenzio, l’orrore vuoto del non essere visti proprio nel momento in cui maggiormente si mettono a nudo le proprie fragilità, cedono il posto a una nuova forma di catarsi positiva.
Seppure il vivere resta dolore, seppure il silenzio è fuoco che brucia nella sua vampa ogni bisogno, riducendo in cenere ogni istanza dell’io lirico, adesso da quella cenere l’io lirico riemerge mondato, certo della sua esistenza. Vede sé stesso negli occhi dell’altro, anche se l’altro non vede. E impara a non chiedere scusa del suo essere, ma rivendica contro il silenzio del tu sordo o del voi ignaro e chiuso nel bigottismo di valori solo di facciata, il diritto all’urlo, alla rottura sonora, al verso spezzato che non può più smettere di dire.
Di qui il vastissimo portato metaforico di una poesia capace di cercarsi all’infinito e di rendere questo percorso di ricerca personale e universale al tempo stesso. Come solo la poesia migliore sa fare.
Il presente articolo è una libera riduzione della postfazione pubblicata in Cantico rupestre
Collana: Poetry
Dati: 100 pag., brossurato