La prima cosa che salta agli occhi durante la visione di Giorni e nuvole, splendido film di Silvio Soldini ormai di qualche anno fa, è l’impressionante carica di realismo di cui sembra essere intessuto. Sembra quasi che l’autore del solare Agata e la Tempesta, il poeta surreale di Pane e tulipani, il compassato e letterario maestro di stile di Brucio nel vento abbia di colpo scoperto la prosaicità della realtà quotidiana. Non che non ci fosse realismo nelle opere precedenti, intendiamoci, ma ogni riferimento al contingente subiva, sotto il suo sguardo incantato ed incantatorio una sorta di operazione di trasfigurazione che lo liberava, sia pure solo in parte, dei residui di una troppo ingombrante oggettività.
Giorni e nuvole, al contrario, sembra soffermarsi con insistita partecipazione sui problemi più elementari e ogni elemento surreale sembra cadere in secondo piano, sembra doversi accontentare delle parentesi brevi, dei momenti più accessori e meno fondamentali dello sviluppo dell’intreccio come nella scena (la più soldiniana del mazzo con il suo gioco a contrasto tra figure in primo piano e sfondo) in cui il personaggio di Antonio Albanese porta il padre a visitare l’acquario di Genova e la macchina da presa diventa tutt’uno con la meraviglia del vecchio che si alza dalla sedia a rotelle ed ha di colpo gli occhi di un bambino. Un momento di incantata suggestione, un picco emozionale quasi miracoloso.
Il resto del film sembra, invece, centrato sui problemi oscuri di una realtà contemporanea colta nel suo divenire con uno sguardo inaspettatamente lucido. Sono i problemi della ricerca di un lavoro che si consumano, per amore del paradosso, in una città, come Genova, che con il suo paesaggio industriale, con il suo porto operoso e le sue gru in perenne movimento, rimanda per contrasto, l’idea di un’operosità incessante dove nessuno potrebbe realmente rimanere disoccupato. Sono i problemi del far quadrare i conti a fine mese quando marito e moglie, la sera, si riuniscono di fronte al taccuino su cui sono scritte a matita le spese e gli incassi ed è tutta una ridda di somme e sottrazioni, di paure e decisioni: una scena, questa, cui il cinema italiano più recente ci aveva disabituato da tempo. Ma sono anche i problemi delle file al supermercato, della difficoltà di scegliere la confezione di conserva di pomodoro meno cara e della giusta quantità di ricotta da acquistare al posto del meno rustico formaggio francese che prima piaceva tanto. Sono i giorni che scorrono tutti uguali alla ricerca di un lavoro che non arriva mai o quelli passati per un impiego che, invece, è arrivato troppo presto, ma non gli si è potuto dir di no perché i soldi in banca hanno il brutto vizio di finire anche se non li tocchi mai.
Ma a proseguire in questa direzione si rischia di travisare il senso del film, di vederci un’anima alla Loach che non gli compete per nulla. Anche perché, e sin dal titolo, Soldini ha messo vicino a questi giorni di prosaico quotidiano calvario anche le nuvole, la fantasia, la magia di uno sguardo al fondo ancora un po’ fanciullo che è una caratteristica irrinunciabile di tutto il suo cinema.
Quello che conta tanto in Giorni e nuvole non è solo l’orrore di un sociale che sempre più si abbruttisce sotto gli occhi un po’ colpevoli un po’ indifferenti di tutti noi, ma lo stupore con cui è osservato dagli stessi personaggi che lo vivono. Il cinema di Soldini, in questo senso, è antropocentrico in un senso diverso rispetto a quello prospettato da Visconti quando coniò anni addietro questa formula. La sua macchina da presa non abbandona mai gli occhi (e, quindi l’anima di cui sono specchio) dei suoi personaggi, si affanna sempre ad avverare un’utopia secondo la quale il mondo può essere guardato attraverso la loro fantasia, il loro modo di vivere e partecipare della storia.
Quello che interessa Soldini non è tanto la discesa agli inferi dei suoi personaggi, non è il fatto che il marito arrivi a chiudersi in casa senza avere la forza di uscire dal tunnel se non la rabbia che lo porta ad impiegare il tempo facendosi le seghe come quando aveva quindici anni, né il fatto che la moglie arrivi a tradire il marito col suo datore di lavoro (seppure solo nello spazio di una breve notte). Quello che conta è lo stupore con cui i suoi personaggi si vivano questa discesa atroce nel buio con l’espressione di chi non riesce a concepire davvero che questa cosa stia accadendo davvero a loro. Ed è splendido il modo con cui il regista disegna la crisi di coppia di questi due personaggi (una coppia per una volta al centro di un suo film, un universo nuovo per un cineasta che sino a questo momento aveva messo al centro del discorso sempre il singolo) man mano che le cose accadono senza che loro ci possano far qualcosa e man mano che la loro impotenza si trasforma in una rabbia che si riversa sull’altro per il solo e semplice motivo che l’altro è sempre odiosamente lì, con quei difetti con cui ad un certo punto sembra diventare impossibile convivere.
Se i Giorni sono i problemi della vita vera, quindi, le nuvole sono, invece, lo sguardo con cui li si contempla mentre “accadono”. La prosa e la poesia del film uniti da una congiunzione che tutto dice e tutto spiega.
Per questo il realismo che ci sembrava il sale della novità del film rispetto alle opere precedenti, perde ogni connotazione di denuncia (Soldini non è Loach) e si fa parte di un tutto. Anche se sembra spesso improvvisato, il film, in realtà, è costruito dalla penna di un poeta che scrive in versi anche se sembra voler rinunciare alla rima. Ma anche questo non è del tutto vero. Perché nell’inquadratura finale, quando Albanese e la Buy (per entrambi non esistono superlativi adeguati), sdraiati per terra guardano l’affresco appena restaurato (che, malgrado le previsioni non è né una Natività né una Visita dei magi, bensì un’Annunciazione), essi occupano nell’inquadratura la stessa posizione delle figure che stanno osservando. Una rima di senso, a pensarci, che apre la coppia ad un possibile futuro insieme (un’annunciazione laica, quindi). Una speranza, quindi, che illumina il film nella meravigliosa, stupefatta scoperta che, malgrado tutto, sono e non possono essere altro che il desiderio più vero l’uno dell’altro.