Sotto il titolo Trilogia di Ceriman (anagramma carnevalesco assai azzeccato del nome dell’autore) trovano posto tre opere “giovanili” di Carmine Brancaccio.
La prima, Fughe, i re sono giullari, risale al 2002, epoca in cui il poeta sfiorava con leggerezza i venticinque anni, portandosi dentro e impresso nei versi un chiaro senso di contestazione a uno status quo percepito come odioso e detestabile.
La seconda, la più criptica, Laudano (siamo nel 2006) è invece espressione di una ricerca poetica intinta di surrealismo, capace di gustarsi voluttuosi bagni in una scelta lessicale più preziosa che è segno prima di tutto del bisogno di una propria autodefinizione stilistica.
La terza, infine, Le quartine di Pierrot, (appena dell’anno successivo), lancia un discorso tutto centrato sul ritmo, con una metrica legata al modello arcaico della quartina, in cui, però, il verso tende al martellio sonoro del dodecasillabo senza troppo lasciarsi ingabbiare da un rispetto alla regola autoimposta.
Tre diverse coniugazioni del poetare, insomma. Tre momenti diversi di una crescita autoriale unificati dal comune denominatore dello sberleffo ironico (e autoironico) che smaschera ogni convenzione e si smaschera, mettendo a nudo un’interiorità complessa e tutt’altro che pacificata.
Una trilogia, quindi, riunita sotto il segno grafico della maschera (azzeccatissima scelta di copertina!) che copre per rivelare, che tace per dire.
Del resto il rovesciamento carnevalesco è davvero il segno poetico che, protagonista dei componimenti della prima silloge della trilogia, poi stranamente (ma coerentemente) tracima fino a invadere anche le successive due, nutrendosi quasi dell’ossimoro presente sin dal titolo e nell’immagine del re, giullare di sé stesso, pronto alla fuga nell’impossibilità evidente di incarnare sino in fondo il ruolo che la convenzione sociale e l’atto di nascita gli hanno imposto.
Così, in Fughe, l’io lirico si disvela di fronte al proprio lettore come il comico di fronte al pubblico grasso delle piazze o come il circense che si rivela nel momento stesso dell’acrobazia, quando la legge di gravità è disattesa dal gesto aereo di un poetare d’improvviso libero e sfrontato. Qui, in un tripudio di figure a metà tra lo squallido realismo con cui si coglie la miseria della condizione umana e la leziosità della porcellana veneziana, si consuma la grande contraddizione di cui si nutre in maniera feconda la poesia di Brancaccio: il costante braccio di ferro tra essere e apparire. Giocoforza che questo iato, più lacerante di quanto non appaia a tutta prima, si esprima attraverso un versificare volutamente barocco (nel senso migliore del termine) in cui l’effetto sorpresa pervicacemente ricercato, spalanchi improvvise vertigini di senso capaci di illuminare il lettore con una consapevolezza tanto esistenziale che, con triplice avvitamento splendidamente eseguito, sociale e politico. In fondo, si sa: il carnevale, invocato come momento di estrema libertà dai vincoli dell’apparenza (e dell’appartenenza) è, per sua stessa natura un gesto controculturale.
Il gioco perfetto sta nel gioco;
l’ausilio strafottente del regnante
divora le sembianze del clero
fino allo sgomento dell’immagine.
Così, scivolando naturalmente tra riflessioni e barzellette (che sono fatte in fondo della stessa sostanza: evanescenti parole) Fughe si avvera come corteo di maschere e carri allegorici che non disdegnano, nella perfezione ricercata al gioco, il ricorso al trucco, anche se di baraccone.
Altrove, invece, quasi ad anticipare la seduzione implicita della successiva Laudano, che sfianca i sensi come la droga, stordendo, si affaccia un erotismo profondo e ammaliante:
Alle tre e tre quarti
di mattina d’agosto
il desiderio è ancora illeso.
Un incipit costretto nell’allitterazione che ci si strofina addosso, pungendo come i sensi insoddisfatti, mentre la calura d’agosto “dolciastra accattivata” ha i movimenti sinuosi e bagnati della nebbia che lenta scivola attraverso la finestra ancora aperta in attesa dell’acqua dei fiumi. Un brano sospeso, giocato su terzine che crescono, si allungano e si stendono in spire sempre più ipnotiche sino all’icastico:
Ho sete! Ho sete! Ho sete!
Sono ammattito di sete.
Preludio perfetto all’immagine dell’orzata che fuoriesce dalle piante, mischiandosi nel torpore dell’acqua.
Ma a questa carica estetica segue sempre, nella poesia di Brancaccio il bisogno di ancorarsi a un’etica chiara del poetare. Non si scrive solo per dirsi, ma soprattutto per dire. L’oggetto dell’enunciazione, anche se spesso celato nella maschera astratta del verso criptico, si svela, il più delle volte, proprio grazie all’accostamento assurdo e surreale. Non la singola parola, quindi, ma la relazione che essa intesse con tutte le altre, in cerca di una polisemia capace di sconcertare il lettore, sta il lato migliore di Laudano, una raccolta consapevole del fatto che
Filosofia e poesia viaggiano
sottobraccio riparati
dalla pioggia
con un ombrellino dorato.
Un’immagine questa, se ci pensiamo su un momento, che non sarebbe stata male in Fughe, ma che meglio condensa uno dei motivi di maggior interesse di tutta la poesia di Brancaccio e che proprio il Laudano sempre diventare più intensamente metaconsapevole:
Egli sa che deve
scrivere a fuoco lento
senza obblighi morali
né pace alcuna.
Espressione di una missione poetica, quella che emerge qui, in questa immagine del fuoco lento che prelude con evidenza alle due quartine di Pierrot con cui ci piace chiudere questa recensione:
19.
Mi alzai dal letto un giorno incerto
e decisi di divenire tutt’uno
con l’Arte che sgambetta furente
sottobraccio, ancora zotica, furba.20.
Istruii la Arte con la decisione,
il pigiama era la corazza forte,
la penna era l’implacabile frusta.
Divenni re domatore della Arte.
Collana: La stanza del poeta
Dati: 144 pag., brossurato con alette