Sul nero passato e ripassato, con gesto piano, il tratto incide segni bianchi.
Dal vuoto della memoria disordinata, piano piano arriva, reticente eppure necessario come il vino buono, l’inizio di un disegno. E come il vino buono, anche qui il disegno prende alla gola col suo sapore robusto e brucia la pancia con una sensazione di calore che si spande.
Figure intanto popolano le tavole. Paesaggi, in primo luogo.
Li senti asciutti e secchi che salgono dal mito e poi vanno giù per la coscienza passando dritto per gli occhi come un pugno.
Basta un tratto a disegnare un orizzonte fermo eppure in fuga perenne dallo sguardo; come quelli che qualche volta ci capita di sognare. Una folla di segni contraddittori, animati dalla stessa inquieta furia di un Van Gogh, danno il senso delle spighe, dei fili d’erba, delle foglie degli alberi, di quella natura non addomesticata che sta negli occhi di quei contadini d’altri tempi ugualmente non addomesticati. E poi le case di campagna, di quelle che ancora se ne vedono in giro quando si va nell’Italia più rurale e arcaica, disegnate con la certezza dell’essenzialità, senza fronzoli in quel vestirsi a calce viva e assi di legno tarmati.
Poi persone. Bambini che sono come campi aperti. Adulti recalcitranti che non sono mai stati a scuola e lo sanno che il non saper leggere è ciò che li rende anello debole nella catena dello sfruttamento.
Ti guardano negli occhi ed è fatica non distogliere lo sguardo per la vergogna. Perché nel fitto groviglio di segni che fanno la loro storia ci leggi tutto il senso di un racconto lungo, che si perde indietro nei secoli e che li fa “degni”. Più degni di uno come me, che scrive pigiando i tasti davanti a un computer e che può credere, per questo, che magari ne sa qualcosa in più.
Così già solo nel tratto, già solo nel disegno che ti scava dentro mentre scava nel buio del nero in cerca di un po’ di bianco, si fa strada, rabbiosa, ma composta, monumento pasoliano d’altri tempi, la memoria di una lotta di classe che è necessaria perché quei bambini che crescono in mezzo ai campi, imparando il sudore dalle stagioni, hanno lo stesso diritto all’infanzia di tutti gli altri e lo stesso bisogno di un’educazione che faccia loro strada.
Ma, per questo soprattutto, occorre qualcuno che mastichi bambini e sputi fuori uomini: sublime metafora del lavoro del maestro che non si fa problemi a scendere in mezzo agli ultimi per regalare loro almeno un’occasione.
Il Maestro è la storia in poche tavole e una manciata di parole di Don Lorenzo Milani. La si vive però, con ritrosia e un certo senso di pudore, stando dietro gli occhi di uno dei suoi ragazzi. Sono occhi, i suoi, per lo più obliqui di chi ha un bisogno, ma non la capacità di chiedere. E guardano il lettore con la sfida di chi sa che in fondo l’altro nella migliore delle ipotesi ti guarda dall’alto e mica ci pensa a capirti per davvero.
Simone Massi racconta così la storia di un maestro esemplare partendo dalla percezione immediata della necessità della sua missione. Lo aiuta il racconto di Fabrizio Silei in perfetta sintonia col sentire (o se preferite: vedere) del disegnatore. Un racconto al fondo verista nella sua fame di Reale, reso incanto secco dalla scelta a monte del punto di vista di un bambino che tutto è fuorché fanciullino. Già adulto, semmai, segnato nel solco di un destino tracciato dall’aratro e che per questo ci accusa di indifferenza.
Il racconto cede un po’ di fascino solo nel prefinale quando i bambini, imparato a leggere e scrivere, sembrano perdere un poco del loro vissuto contadino. Ma è appena un inciampo che il disegno comunque sostiene e che ben prelude al tono di commossa Marcia Funebre che caratterizza tutta la parte del processo e della morte di Don Milani, novello Cristo sul Golgota della nostra indifferenza.
Su quanta musica respiri nel disegno di Massi nessuno, pare, ha ancora scritto. E si dovrebbe. Perché questo libro, nel contrappunto con la penna di Silei che non è mai sbavata, è una sinfonia a piena orchestra. Dodecafonica nel gesto artistico contratto e teso, ma con dentro un’ansia di lirismo che non lascia mai indifferenti.
Un piccolo, grande capolavoro.