In qualche modo Zenzero di Iacopo Maccioni è un vero e proprio romanzo “di parola”. Usiamo in questo senso una formula che viene più propriamente impiegata quando si parla di teatro, perché ci pare quella più adatta a dare il senso di un’operazione romanzesca particolarmente intrigante nella sua semplice complessità. Parliamo, quindi di un romanzo “di parola” seguendo gli stessi schemi con cui distinguiamo un teatro “di parola” da uno “d’azione”, “d’attore” o “di figura”, avendo cioè in mente un teatro capace di mettere al centro del suo discorso un testo letterario e capace, con questo, di far discendere tutto il suo linguaggio spettacolare dalle suggestioni che quel testo conteneva già in nuce.
In principio era il Verbo, insomma. E dal verbo, dal lemma, dal segno grafico sulla pagina che è anche suggestione visiva per il fonema ad esso legato, discende l’intero universo secondo un gesto demiurgico che è creativo e fecondativo al tempo stesso.
Tutto, in Zenzero, nasce con la parola e solo in essa ogni cosa trova la sua ragion d’essere. Tutto si lega alla possibilità del vocabolo di significare, di evocare, di istituire connessioni.
E non è un caso che il personaggio principale di questo libro, per fecondo paradosso invece assolutamente corale, sia un bambino che ancora sta imparando a parlare e che quindi si trova in quello spazio franco, incerto, tra la possibilità di dire e quella di fraintendere. Non è un caso perché proprio in lui la dinamica del flusso di coscienza, un flusso guarda caso composto da parole in apparente libertà, permette al mondo evocato sulle pagine di divenire fluido, di sgusciare tra le mani sapienti del narratore non più in grado di contenere in esse tutte le complessità del reale.
La parola nel romanzo ha quindi, molteplici funzioni che si esercitano tutte insieme in un’allegra confusione di sensi e dei sensi , proprio come la coscienza ancora fluida del piccolo protagonista, lo zenzero del titolo, che è bambino, ma anche spezia, percezione del mondo e sua (ri)creazione attraverso i vocaboli imparati a scuola.
La parola, ad esempio, ha tanto per cominciare una mera funzione di individuazione geografica: è la parola dell’accento e del dialetto aretino già pronto a scivolare nell’italiano televisivo che ora tutti noi parliamo. Una parola, quindi, ancora al di là del guado dell’omologazione temuta da Pasolini, con i piedi ben radicati in quel mondo ancora presessantottino che già subodora i mutamenti epocali di una controcultura che bussa alle porte.
La sua funzione è quindi di definizione e connotazione storico-geografica che dà al narrato tutti i carismi dell’unicità esemplare, dicendoci che questo racconto che leggiamo, proprio questo, può avere luogo solo a Patrignone, in quell’anno e forse anche in quel giorno specifico, ma non altrove né in un altro possibile quando.
Eppure, proprio per quel miracolo polisemico che sta alla base di quest’uso della parola come suggestione: al tono di mera (ri)evocazione che ha il sapore di un neorealismo già fuori tempo massimo in quell’anno che ospita il racconto, si aggiunge anche un’evocazione all’universale, a quell’infanzia di tutti (e quindi, forse, di nessuno) in cui ciascuno di noi può riconoscersi, che si sia del nord come del sud, di città come di provincia. Anche perché per tutti c’è stato quel momento in cui la parola si è trovata nello spazio incerto tra balbettio e lingua, tra suono e significato.
Allo stesso modo la parola ha, in Zenzero, dimensione polimorfica. Si adegua ai personaggi, come un guanto. È la loro forma prima ancora che la loro forma di espressione. Li dice mentre si dicono perché – e proprio in questo sta la grande verità del romanzo – loro sono in un certo modo perché è il loro modo di parlare a modellarli in quel modo e non viceversa.
La parola è, infine, spazio di espressione di un narratore invisibile, scivolato e confuso in maniera indistricabile nel vissuto dei suoi personaggi, portato al grado zero cui deve adeguarsi ogni possibilità di focalizzazione narrativa. Uno spazio poetico che trova espressione in una prosa immaginifica e continuamente cangiante che chiude l’arco narrativo, come in Joyce, nello spazio di appena ventiquattro ore in cui tutto accade perché nulla, in fondo, è accaduto. Epifania estrema di un tempo, un luogo e una manciata di voci che fanno coro proprio nel momento in cui ognuna canta in un cantuccio tutto per sé.
Un’opera intrigante Zenzero. Che merita un suo pubblico e un lettore poco distratto e cui non possiamo che augurare la miglior fortuna.