Viene dallo zingaresco oriente il contagio maledetto.
Per l’occhio che non sa vedere oltre i limiti del conosciuto ha la forma del morbo che appesta. Un morbo che cammina su zampette di topo, che si annida nella terra umida di tomba chiusa in casse da morto e che si propaga invisibile di collo in collo.
Nei piccoli ambienti è peggio: lo spazio angusto si riempie in fretta delle esalazioni invisibili e corrotte.
Ma anche in città cammina per le strade, si muove sinuoso al ritmo lento delle campane a morto. E presto diventa difficile far fronte al numero dei decessi. Presto diventa un problema il mesto corteo di bare che nemmeno si possono più accompagnare. Si ammala così anche la corrispondenza d’amorosi sensi e il ricordo del morto torna a perseguitare chi resta, come un vurdalak di baviana memoria che bussa alla porta, di notte e aspetta.
Del resto, il contagio che prima cammina tra gli sconosciuti che condividono appena il viaggio e il lavoro, poi trova proprio nell’unità familiare il più insospettato terreno di circolazione. E il marito consegna alla moglie, come la madre al figlio il suo sinistro bagaglio di morte.
L’occhio che vede meglio, quello del cinema, coglie invece nel sinistro rincorrersi di salme un disegno più cupo. Il contagio ha sempre un punto di partenza e quel punto di partenza ha gli occhi acuti e rapaci del vecchio potere. Un conte, forse. Un mostro senz’altro. E nerovestito.
Un’ombra sinistra che ha dalla sua l’ingordigia di chi vive del sangue degli altri. Di chi cavalca le paure di tutti per un accumulo personale che non ha mai fine. Perché niente riesce ad estinguere la sete invincibile di morte. Forse neanche il sacrificio della giovane fanciulla, sposa eppur vergine, che riesce a farlo attardare sino al canto del gallo.
Quanto è attuale Nosferatu eine Symphonie des Grauens, capolavoro nel quale Murnau ha intravisto l’avvinarsi spaventoso delle ombre del nazismo. Quanto è attuale nella sua inesauribile interpretabilità la metafora che è alla sua base, forse più ancora che nel romanzo capolavoro di Bram Stoker che un po’ l’annacqua nella successione epistolare a più voci e che, invece Murnau riduce all’essenza più vera delle ombre che camminano.
Tanto attuale che passa il suo contagio negli anni, replicandosi come un virus nella ridda dei remake, nel gorgo tumultuoso degli omaggi. Tanto attuale da riflettersi nel solo specchio della celluloide passando dai colori colati sul nitrato d’argento (il rosso negli interni, il blu negli esterni, il verde della follia in una concezione coloristica che andrebbe studiata finalmente come si deve e che fa la gloria dell’edizione del 1922 che non è mai stata per il solo bianco e nero) al sonoro dell’edizione Herzog che ha dedicato alla follia di un mondo distrutto dal contagio uno dei balletti di morte più intensi della storia del cinema. Una scena folle e inedita di chi ha capito che neanche la casa, un tempo baluardo e difesa dei miti valori borghesi, può niente contro l’avanza del contagio e che assume in questi tempi di restiamo a casa ambigue sfumature nel racconto di una peste che colpisce l’anima prima ancora dei corpi.
In fondo il cinema ci aveva già detto tutto di questi tempi bui e dolorosi. Ci aveva già raccontato dei lutti. Come pure dei sospetti. Ci aveva raccontato la ricerca dell’untore e la caccia ai colpevoli anche tra i vicini di casa. Ci aveva detto già tutto e noi non ce ne eravamo accorti.