Dato per spacciato ai tempi di Lady in the water (che nessun commentatore sembra aver mai voluto vedere per quel che intendeva essere sin dall’inizio: una fiaba per bambini con tutte le contraddizioni e le palesi ingenuità che ne sono ingrediente sostanziale), Shyamalan era riuscito a tornare col vento in poppa dei favori della critica già con il piccolissimo, ma a tratti geniale The Visit.
Split aveva poi confermato la tendenza nel suo essere opera più ambiziosa e capace di riannodare in maniera niente affatto banale le tematiche dei primissimi successi (in particolare Unbreakable) con il bisogno di una rimodulazione in chiave contemporanea di uno stile che voleva rimanere riconoscibile e di gusto spiccatamente autoriale.
La critica, si sa, soprattutto ora che è entrata in rete ed è, per questo, soggetta ai capricci degli haters e delle vulgate obbligate dal rating ludico dei likes , volge qual piuma al vento ora in una direzione ora nell’altra dimenticando spesso che il suo compito non è dare stellette o galloni, ma tentare di comprendere il valore di un’opera e restituirlo poi al lettore con l’autorevolezza dello studio.
Alla sua uscita non stupisce, quindi, che anche Glass sia un film sbatacchiato or quinci or quindi tra gli osanna per l’autore ritrovato (manco si fosse dalle parti di Uhlman) e le trenodie per chi ancora sostiene che il regista non sia più quello de Il sesto senso.
E ben venga, verrebbe a noi di aggiungere, perché dal fortunato film degli esordi a oggi sono passati venti anni e se Shyamalan fosse ancora lo stesso di quei tempi, allora sì che ci sarebbe da piangere, vista e considerata la non piccola rivoluzione registrata nel frattempo dall’industria che si è spostata, in particolar modo nel contesto del cinefumetto di cui Glass è straordinario esponente, dalla dinamica trilogica a quella della narrazione infinita della serialità televisiva.
Di questo spostamento di orizzonti, l’ultima fatica del regista naturalizzato americano è più che consapevole. Di più: la testualizza e la rende occorrenza necessaria di un nuovo immaginario che supera la dimensione locale (ancora protagonista la consueta Philadelphia) e la porta a un livello decisamente più globale.
Glass fin dalle prima battute è figlio perfetto di un mondo che sta spostando il proprio habitat dal reale al virtuale. È un film nato nell’onda delle nuove piattaforme come Amazon e Netflix che non solo stanno cambiando le nostre abitudini nella fruizione dell’intrattenimento, ma anche il modo stesso di comporre e pensare le storie. È, infine, un’opera che pur calandosi idealmente nel solco della narrazione infinita, rivendica il bisogno della ricaduta di ogni affabulazione, nella ciclicità che chiude almeno qualcuno dei conti in sospeso dell’immaginario collettivo.
Glass rivendica fin dal titolo la propria vocazione narrativa. Vetro, appunto. Ma non il vetro trasparente che separa il qui dal lì. Un vetro infranto, piuttosto, splittato in mille frammenti in caduta libera, come la finestra della casa del pastore di Signs.
In questi brandelli di vetro, con cui è tanto facile tagliarsi, si rifrangono in mille direzioni le immagini della narrazione. Non solo le immagini, anche i generi, le dinamiche narrative, le stesse funzioni attanziali del racconto.
Glass tutto rigira e tutto riconduce al caleidoscopio di possibilità di una narrazione esplosa che si aggroviglia su se stessa in un balletto aereo di rara perfezione.
Tutto ritorna in questo film che era stato percepito dalle abitudini dello spettatore come atto conclusivo di un’ennesima (e datata rispetto al costume imperante) trilogia e che invece è l’attestato finale della conclusione di un mito delle origini.
Il colpo di scena finale, mai così magnifico come in questo film scintillate, è il rilancio all’infinito. Frattanto lo splittamento dell’immagine nei mille schermi mabusiani che affollano l’ospedale psichiatrico nel quale vengono rinchiusi i protagonisti dei due film precedenti, si ribaltano nelle mille immagini degli schermi dei telefonini o degli i-pad della narrazione condivisa.
E proprio in questa condivisione finale, auspicata e salutata come avvento del nuovo verbo, sembra consumarsi l’augurio di un passaggio dalla dubbiosità del romanzo al trionfo di una nuova epica, capace di accettare nel pantheon del racconto nuovi dei, infinitamente più problematici, ma anche più magnifici di un semplice Superman o di un Thor.
In mezzo, però, anche il segno vitale e autoriale del cinema di Shyamalan: l’idea che il reale altro non sia che un luogo epifanico di segni che sta a noi interpretare correttamente e ricondurre a un Senso collettivo. E, altro elemento che stacca Glass dal genere, questo passaggio è forgiato dal dolore: l’incaglio da superare, ma senza cui non può esistere narrazione.
Sono probabilmente queste le scene in cui maggiormente si palesa la grandiosità del disegno narrativo di Shyamalan, quelle che eleggono a protagonista il dolore e che avverano momenti di incredibile poesia all’interno di un action che non si preoccupa di trovarsi le sue pause per pensare.
E sta tutto qui il motivo della riuscita di Glass. Forse il primo capolavoro di questo appena cominciato 2019.