Che il capitolo secondo di IT volesse essere altro rispetto al primo era dichiarato sin dalle intenzioni.
Se il precedente del 2017, infatti, si voleva come racconto di formazione all’interno di una storia di amicizia adolescenziale costretta a confrontarsi con l’orrore di un mostro soprannaturale, l’atto conclusivo, spostando la sua ambientazione a ventisette anni dopo quei fatti, diventa, per necessità un controcanto sull’età adulta, sulle occasioni perdute, sul confronto impietoso tra i sogni dell’infanzia e la realtà di compromesso con la vita vera.
Nel romanzo di partenza, l’avevamo già scritto nella recensione al primo capitolo alla sua uscita in sala, i due piani della narrazione, in realtà, vivono di un continuo reciproco riflettersi.
Il romanzo, monumentale, di oltre mille pagine di genuino spavento, avvicenda infatti, le due diverse epoche della narrazione in un calibratissimo montaggio alternato di fatti e situazioni. Adolescenza e mondo adulto, in questo modo, si illuminano reciprocamente e diventa facile per il lettore capire come la prima influenzi, determini e costruisca (anche nelle contraddizioni e nei rifiuti) il secondo.
La doppia struttura polifonica del romanzo, quindi, che nasce non solo dalla sovrapposizione brutale di piani cronologici distinti, ma anche dalla moltiplicazione quasi espressionista dei punti di focalizzazione narrativa (sette eroi, più una nutrita schiera di personaggi di contorno non meno significativi nella definizione del racconto) circondava, in questo modo, il nucleo più profondo del romanzo che era una riflessione metaforica sui meccanismi stessi della paura.
Da un punto di vista narrativo, quindi, la calcolata alternanza di passato e presente era fondante nella costruzione delle motivazioni dei personaggi in tutte le loro scelte, ivi compresa quella di tornare sui luoghi dell’orrore quando IT si sveglia allo scadere del suo ciclo di sonno con rinnovata fame di paura.
Proprio per questo motivo, Muschietti, che aveva bellamente diviso i due piani temporali nei due capitoli distinti del suo ambizioso progetto filmico, comincia questo secondo tassello narrativo con l’impaccio di dover saldare i personaggi del presente con le rispettive controparti del passato. La netta separazione delle due epoche del racconto, che era risultato in fondo facile per la narrazione delle origini, diventa, quindi, missione impossibile per quella dell’atto conclusivo. Ed ecco, quindi, che l’alternanza di epoche cacciata fuori dalla porta due anni fa, rientra ora dalla finestra.
L’artificio non si rivela comunque sufficiente a rendere il senso dell’oggetto di valore perseguito dagli eroi. Se, infatti, nel romanzo, il collante alla decisione di affrontare di nuovo l’orrore sta tutto nel ricordo di una promessa fatta da bambini e sui motivi che l’hanno prodotta (oltre che alla consolazione dello stare insieme per quella strana chimica elettiva che salda le amicizie in un modo tutto speciale quando si è bambini), nel film diventa, invece, urgente trovare e sottolineare le motivazioni che fanno sì che un gruppo di adulti del nuovo e più disincantato millennio (rispetto agli anni ’80 del romanzo: periodo in cui anche gli adulti erano in fondo adolescenti camuffati) si prendano sulle spalle la missione di uccidere un mostro millenario quando hanno vite tanto ben realizzate e calme fuori Derry.
La soluzione è narrativamente goffa: ci si dice, infatti, che IT abbia contagiato i perdenti, poco prima di ritrarsi nelle tenebre momentaneamente sconfitto, con un germe di dolore e che tutti finiranno suicidi come Stanley o, comunque, moriranno in poco tempo anche se non affrontano il male che giace sotto la città.
A questo primo elemento che inficia e sporca la pulizia della motivazione che orienta il percorso eroico del meccanismo attanziale della narrazione, si aggiunge poi, incongruo e assai fastidioso, un tema che pure c’era nel romanzo, ma che era assai meglio amalgamato nel narrato: quello del rito indiano per uccidere IT, unica speranza cui aggrapparsi per scendere di nuovo nelle fogne.
Tutta la parte del rito, infatti, è quella più profondamente risibile del film, un concentrato di spiegazioni fiacche e immagini sconnesse che annullano la carica perturbante del mostro e lo riconducono a un immaginario meccanico (come la croce nei film Dracula della Hammer) che non ha niente a che vedere con la grandiosità dell’invenzione kinghiana.
Il rito fornisce però al film il destro all’idea centrale del film del difficile recupero, per ogni personaggio, del proprio passato personale. Così seguendo i vari eroi in giro per Derry, ciascuno in cerca della propria arma mitica (il ricordo da sacrificare al fuoco che conterrà la forma del mostro), si avvera un grandioso gioco di flash-back in cui ognuno si rivede bambino e capisce perché, tra le tante possibilità sia diventato proprio quel tipo di adulto.
Forse è proprio questa la parte più riuscita del film. Sicuramente la più lunga e più compatta. Anche perché rivela un autentico affetto da parte del regista (e degli attori) nei confronti del materiale narrativo.
Ma è questa anche un’azione che sposta tutta l’attenzione sul solo nucleo centrale del gruppo dei perdenti portando ad alcune esemplificazioni di troppo. Scompaiono ad esempio alcuni personaggi che nel romanzo hanno importanza capitale: primo fra tutti Audra, moglie di Bill, liquidata a una sola apparizione a inizio film. Sorte analoga tocca al marito di Bev, mentre il personaggio di Henry Bowers brilla per la sua sostanziale inutilità.
Tutto si chiude, quindi, sulla sola componente umana del reciproco ritrovarsi di amici di infanzia saldati dalla comune esperienza di una guerra alla paura e della successiva paura di una nuova guerra, con perdita di messa a fuoco sul contesto. Ne soffre l’idea della mostruosità dello stesso tessuto sociale di Derry, modellato sul mostro che ne è la sua coscienza segreta. Un’idea che era forte nel romanzo ed era pur presente nel primo capitolo e che viene qui bellamente abbandonata subito dopo il primo delitto, quello del giovane Adrian, omosessuale e vittima di un razzismo e dell’incapacità di evolversi dell’intera città.
Insomma, quel che It – Capitolo 2 recupera da una parte (attenzione ai personaggi, approfondimento psicologico) lo perde dall’altro (IT come metafora del malessere dell’intera nazione americana).
Il problema più grande del film, che è comunque superiore al precedente capitolo, è che strada facendo dimentica un po’ troppo di essere anche un horror. E se è vero che tutta la prima parte del film commuove, colpisce e tiene avvinti, è anche vero che tutte le volte che il mostro giunge a colpire sopraggiunge una punta di noia.
It – Capitolo 2, come del resto il primo ma di più, non spaventa granché anche perché, come tutti gli horror del post digitale ha la tendenza a far vedere troppo e suggerire troppo poco col risultato di rendere goffe paure che se ne stanno acquattate nell’ombra e che i riflettori possono solo rendere innocue.
Peccato. Anche per lo speco di un cast stellare che aggiunge poco e che ci lascia con l’impressione che, alla fin fine, restino più bravi e veri, solo gli attori più giovani.