Ci sono artisti che, quando muoiono, lasciano un vuoto incolmabile e un imprecisabile senso di sgomento.
Sono quegli artisti che non hanno ancora chiuso i conti con il loro magistero. Autori che non hanno ancora smesso di interrogarsi e di interrogare il presente nel quale vivono.
Giovani dentro, ti lasciano con l’impressione che la morte, stranamente prematura anche a cento anni, ti abbia privato almeno di un ultimo capolavoro. Hai l’impressione che un ultimo regalo sia rimasto in qualche modo impigliato al di qua delle intenzioni.
Capitò in musica, quando morì Britten, proprio mentre la sua penna vergava sul pentagramma le sue note più marmoree e brucianti. Capitò, al cinema, quando la morte ci strappò Olmi che pure di capolavori ce ne aveva regalati. Eppure di sorpresa erano usciti inaspettati un Torneranno i prati e anche un Centochiodi o un Cantando dietro i paraventi. Chi l’avrebbe mai detto, infatti, che l’autore de L’albero degli zoccoli avrebbe sfornato un Mestiere delle armi?
Ci sono poi gli artisti che, quando muoiono, ci lasciano la tristezza di una perdita vicina eppure distante. Autori che hanno dato molto, ma che, da un po’ di tempo a questa parte, sembravano resistere come foglie gialle in attesa dell’ultima brezza sul ramo del loro essere stati grandi. Figure di spicco, che hanno dato e detto, chi più che meno, in un periodo trascorso della nostra storia. Autori da cui non ti aspettavi il nuovo e che difficilmente avrebbero aggiunto qualcosa al loro essere stati. Anzi che più facilmente avrebbero tolto.
Franco Zeffirelli è stato un nome importante dello spettacolo italiano del secolo scorso. E quanto pesano, nel ripensare al suo lavoro due parole gravide come “secolo” e “scorso” con tutti il loro carico di polvere foscoliana.
Nel raccontare il senso di perdita che ci coglie nel salutarlo a novantasei anni, i titoli che per lo più si portano a vanto di un magistero riconoscibile sono quelli che sembrano venire da un secolo fa: La bisbetica domata (1967), Romeo e Giulietta (1968), Fratello sole, sorella luna(1972) o Gesù di Nazareth (1977, ma era per la TV).
Meglio le cose vanno per il teatro, in specie per gli allestimenti lirici dove fu grande al servizio della musica e dei cantanti (celebri, giustamente, le messe in scena con la Callas per titoli che restano secondi, forse, solo a quelli di un Visconti).
Sono titoli di quando Pasolini era ancora vivo. Di quando il cinema italiano urlava giovane ed era arrabbiato. Di quando il teatro italiano si guardava intorno chiedendosi un perché a tanto strepito e scandalo.
E sono titoli che stanno sugli attori, che nascono dall’incontro tra individualità importanti in cui il regista, responsabile della firma sulla locandina, agiva come catalizzatore.
Così di La bisbetica domata si ricorda la strana confusione arte-vita con le bizze della Taylore la poca vocazione shakespeariana di un Richard Burton. E la giovanissima età di una Olivia Hussey e di un Leonard Whiting dava un piglio stranamente popolare (anticipatore del Decameron pasoliniano?) e nuovo alla storia degli amanti immortali di Verona da ben prima che si pensasse a Di Caprio.
Eppure già in questi film è evidente quel limite che non ha fatto di Zeffirelli quel regista importante che avrebbe potuto essere: quel senso della forma, quell’estetica che sopravanza l’etica e che diventa ingombrante proprio nei film religiosi che sanno essere oleografici come santini, ma restano lontani da ogni vertigine spirituale.
L’inizio della fine, in un certo senso, perché nel corso degli anni – dopo i fasti di questi titoli che unirono pubblico e critica nel riconoscimento che un cuore batteva in un cinema nato forse non troppo giovane malgrado si fosse nel ’68 – poco di veramente bello è stato (Amletodel 1990, ad esempio, aveva qualcosa da dire) e molto passava invece come ombra di un cinema raffreddato in accademia e spruzzato di incessante narcismo (Un tè con Mussolini del 1999 e, tristissimo, Callas Forever del 2002).
E forse è vero che nel teatro era il meglio della produzione zeffirelliana. Quel teatro che lascia poco di concreto e molto nella memoria collettiva. Quel teatro che sta ora nei bozzetti, nei costumi di scena, nei programmi di sala e nelle note di regia. Un mondo tutto ancora da studiare e valutare. Forse il suo lascito più grande e l’evidenza della sua più grande virtù: l’essere stato testimone di un secolo e l’averne incarnato un senso. Forse non il più importante. Forse non il più profondo. Ma, consapevole della sua importanza, se non altro: un senso! Nel delirio dei social e nella memoria breve del nuovissimo secolo questa grandezza rischia davvero di passare inosservata.